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Restare a casa non è sufficiente. Alla base servono fiducia e collaborazione

Nessuno, fino ad oggi, è stato in grado di dare spiegazioni convincenti sulla situazione che ci sta travolgendo. Resta però chiaro che solo tramite cooperazione e fiducia sconfiggeremo l'altro virus, quello della paura e del panico

di Giuseppe Lorenzetti

A quasi tre settimane dal blocco del 9 Marzo, diventa inevitabile porsi alcune domande. Mentre un Paese intero resta ipnotizzato dalla conta dei morti e dei contagiati, poche sono le riflessioni che emergono sulle conseguenze dell’emergenza e sugli effetti collaterali, a breve e lungo termine, dell’isolamento.

Nessuno, fino ad oggi, è stato in grado di dare spiegazioni convincenti sulla situazione che ci sta travolgendo. Ci sono due punti fermi. Il primo è che, ad ora, circa 7000 persone sono morte in Italia con Corona Virus. In particolare, secondo quanto riportato dall’Istituto Superiore di Sanità in data 20 Marzo, l’età media dei pazienti deceduti e positivi a COVID-19 è 78,5 anni (9 di questi 7000 avevano meno di 40 anni).

Il numero medio di patologie osservate in questa popolazione è di 2.7 per ciascuno. Soltanto l’1.2% del campione non presentava patologie correlate, per un totale di 6 pazienti. Il secondo punto è che il nostro sistema sanitario si è rivelato totalmente impreparato a gestire il numero di pazienti bisognosi di terapia intensiva, in particolare per quanto riguarda la richiesta di ventilatori polmonari e di medici specializzati. In base ai dati Eurostat e Ocse, tra il 2000 e il 2017 (ultimo anno disponibile) nel nostro Paese il numero dei posti letto pro capite negli ospedali è calato di circa il 30 per cento, arrivando, per quanto riguarda la cura dei casi acuti, a 2,6 posti letto ogni 1000 abitanti, quinto dato più basso dell’Unione Europea.

Alta densità, alta percentuale di anziani, alti livelli di inquinamento e un sistema sanitario impreparato si sono rivelati una miscela letale. In particolare l’inquinamento non si è limitato a debilitare le difese polmonari, ma, come rivela lo studio di Sima (Società italiana di medicina ambientale), è stato un vero e proprio vettore del virus. La sanità del Nord Italia è attualmente piegata in due. Molti ospedali hanno già superato la soglia limite di assistenza e ciò significa che ci sono persone bisognose a cui non è possibile erogare una cura adeguata. Molti medici ed infermieri, costretti a turni estenuanti e a scarse misure protettive, si sono ammalti. Quando abbiamo iniziato ad accorgerci del trend che si stava verificando siamo entrati in una spirale di panico, che tuttora si protrae.

Nel più totale spaesamento, abbiamo deciso di imitare, a modo nostro, l’unico esempio disponibile, ovvero quello cinese. Inizialmente una disastrosa strategia comunicativa ha spinto una folla di persone impaurite a sovraffollare ospedali e studi medici, accelerando il contagio. Subito dopo, sono state chiuse le scuole e numerosi bambini e adolescenti, più facilmente suscettibili di essere portatori sani del virus, hanno presumibilmente incrementato il loro contatto con la famiglia allargata e quindi con i parenti anziani, creando un ulteriore fattore di rischio. Moritz Kuhn e Christian Bayer, economisti dell’Università di Bonn, confermano infatti che uno dei fattori di aggravamento in Italia è stato, non solo il grande numero di anziani, ma soprattutto la forte integrazione degli anziani nelle famiglie. Abbiamo aspettato il 23 marzo per chiudere le fabbriche. Abbiamo lasciato affollare supermercati e mezzi pubblici. Tuttora non siamo in grado di garantire consegne di alimenti a domicilio per i soggetti più a rischio.

Oggi un Paese intero è fermo, ma non è facile comprendere cosa ciò possa significare. Quando in televisione si parla di economia, ci fanno pensare agli indici della borsa. In pochi invece si soffermano a far riflettere sulla situazione di migliaia di famiglie che stanno letteralmente perdendo tutto. Ci sono persone che, in una situazione normale a stento riescono ad arrivare a fine mese, e che presto, se non già ora, non avranno i soldi per sfamarsi. Sono settimane che si sta parlando di 600 euro di bonus: qualora finalmente erogati, non saranno nemmeno lontanamente sufficienti a coprire il numero dei lavoratori autonomi regolari.

Ma ancora una volta nessuno sta parlando di quell’altissimo numero di persone che, ahinoi, vive in Italia di lavori irregolari. In pochi aiutano a riflettere sull’aggravamento dei disagi psichici, sulle violenze domestiche in crescita, su persone chiuse in pochi metri quadri di casa in compagnia di un partner o di un genitore violento. In pochi stanno pensando ai senzatetto, ai migranti. Che fine hanno fatto quelli che non possono “restare a casa” perché una casa non ce l’hanno? Il terzo settore non è in grado di gestire autonomamente questa parte del problema. Danni sociali, psicologici ed economici sono più subdoli, più difficili da calcolare, ma si trasformano in danni sanitari. Costano anch’essi vite umane e non sappiamo ancora quante.

Non abbiamo una strategia. Sui giornali si legge che le misure stanno funzionando, perché i contagi diminuiscono, ma nessuno precisa che il numero riportato degli infetti dipende dal numero e dall’affidabilità dei tamponi effettuati. L’epidemiologo di Harvard Marc Lipsitich, già a inizio marzo avvisava che poteva essere infetta il 60% della popolazione. L’Oms dichiara che l’80 % delle persone contagiate presenta sintomi assolutamente minimi e difficilmente identificabili. Nessuno ha un’idea precisa sul decorso del virus, che sembra mutare ad altissima velocità. C’è chi parla di un vaccino e chi smentisce in toto questa possibilità. C’è chi parla dell’immunità di gregge e chi sostiene che non sia plausibile. C’è chi crede che nei prossimi mesi alterneremo periodi di normalità e periodi di isolamento, e chi invece spera in un drastico miglioramento dovuto all’aumento delle temperature. In pratica, non abbiamo idea di cosa succederà ed è per questo che restare a casa, convincendoci che stiamo facendo il possibile, non è sufficiente. E’ nostro dovere farci delle domande e cercare delle risposte.

Ad esempio, che effetto fa il clima di paura e caccia all’untore che abbiamo creato, sul sistema immunitario delle persone? Sono possibili strategie alternative all’isolamento totale, di tutela e assistenza rivolta ai soggetti più a rischio? Mio nonno ha 90 anni, è un medico pneumologo e radiologo, ed è convinto che per il mantenimento della sua salute sia necessario passeggiare un poco ogni giorno all’aria aperta. Le misure di contenimento lo costringono però, anziché camminare in solitudine su una strada isolata, a giustificare la sua uscita davanti a un pubblico ufficiale. Viene così obbligato, per poter uscire di casa, a recarsi al supermercato o dal giornalaio, luoghi ad alta potenzialità di contagio. Che effetto fa su un soggetto fragile, e quindi potenzialmente a rischio, non poter respirare aria né esporsi ai raggi del sole? E’ possibile che le ultime misure di contenimento decretate in Lombardia possano risultare, per certi aspetti, addirittura controproducenti? Tutti, chi più e chi meno, hanno ormai capito la gravità dell’emergenza che stiamo attraversando, cittadini e autorità. E’ davvero necessario servirsi della paura, per creare intolleranza tra le persone e instaurare un folle sistema di “guardie e ladri”? Oppure possiamo fare affidamento sulla collaborazione e il buon senso degli italiani, venendo incontro alla tradizione democratica del nostro Paese?

Non ci sono soluzioni facili ed è necessario entrare tristemente nell’ottica di un ragionamento su costi e benefici a lungo termine delle nostre scelte. Per farlo, non è sufficiente restare a casa. Adesso che il nemico è invisibile, veloce e può colpire tutti, nessuno può restare indifferente. È necessario il contributo e la partecipazione di tutti, non a partire dal controllo e dal terrore, bensì mettendo al centro i valori della fiducia, della cooperazione e dell’empatia.

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