Volontariato

Resistenza, armi ed etica nel momento apocalittico. Una risposta a Vito Mancuso

di Pasquale Pugliese

Mentre divampa sempre di più la guerra in Ucraina e c’è bisogno di parole sagge e misurate capaci di smilitarizzare le menti e decostruire la ragione bellica, stupisce che un autorevole teologo e filosofo come Vito Mancuso, fine divulgatore di un’etica “progressista”, in riferimento all’invio di armi in Ucraina da parte delle potenze occidentali rimanga nel suo articolo su La stampa del 6 marzo scorso – invece – legato all’antica teoria tomistica della “guerra giusta” (che peraltro ha legittimato secoli di guerre ingiuste) senza tener conto dell’evoluzione teologica contenuta in fondamentali encicliche come la Pacem in terris di papa Giovanni XXIII – “estraneo alla ragione [ritenere] che la guerra possa essere uno strumento adatto per rivendicare dei diritti violati” – e Fratelli tutti di papa Francesco – “non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile guerra giusta”. La chiesa cattolica, per fortuna (e lo dico da osservatore esterno) ha fatto enormi passi dottrinali in avanti dai tempi di Tommaso d’Aquino. Avevo sempre pensato che il teologo Mancuso, che stimo, fosse proteso verso il futuro anziché legato al passato.

Non tirare Gandhi per il kadhi

Stupisce altresì che il professor Mancuso attento studioso dei “quattro maestri” – Socrate, Buddha, Confucio, Gesù – nello stesso articolo, a giustificazione dell’invio di armi occidentali a sostegno della “guerra giusta” degli ucraini contro l’invasione russa, citi Gandhi in maniera incompleta e, di conseguenza, fuorviante. Nel rievocare la trita citazione gandhiana – “Supponiamo che un uomo venga preso da una follia omicida e cominci a girare con una spada in mano uccidendo chiunque gli si pari dinnanzi, e che nessuno abbia il coraggio di catturarlo vivo. Chiunque uccida il pazzo otterrà la gratitudine della comunità e sarà considerato un uomo caritatevole” – dimentica di aggiungere che Mohandas K. Gandhi nello stesso articolo (Young India, 4 novembre 1926) specifica così la sua affermazione: “colui che intende praticare l’ahimsa [la lotta nonviolenta] deve commettere l’himsa” [la violenza], contemplata per sostentare il proprio corpo e per proteggere coloro che sono affidati alla sua custodia, soltanto quando è inevitabile, dopo una completa e matura riflessione e dopo aver esaurito tutti i mezzi per evitarlo”. Ed a questo – cioè alla costruzione di mezzi nonviolenti per evitare quelli violenti, sia per sostentare il proprio corpo (Gandhi era vegetariano) sia per risolvere i conflitti, a cominciare dalla resistenza contro l’occupazione britannica dell’India – Mohandas K. Gandhi ha dedicato la vita. E per questo è stato ucciso da un suo connazionale e co-religionario. Non risulta che nel caso dell’Ucraina siano stati esauriti tutti i mezzi nonviolenti prima di inviare massicciamente armi, anzi l’invio di armi è stata la prima opzione occidentale. Quindi non è il caso di tirare Gandhi per il kadhi.

Un momento apocalittico preparato a più mani

Inoltre – come anche Mancuso specifica nell’articolo successivo (La Stampa, 11 marzo 2022) – la tragica vicenda ucraina s’inquadra all’interno di uno scenario di grave pericolo di guerra atomica più volte esplicitamente evocato nell’escalation di questi giorni: “stiamo vivendo” – dice giustamente il professor Mancuso – “un momento apocalittico”. La cui via d’uscita, tuttavia, è più complessa della mera scelta – aut aut – tra vita e libertà, che nella semplificazione a cui approda il ragionamento di Mancuso, è tra inviare armi o rimanere inermi. Più complessa per tante ragioni, di cui due prioritarie. La prima ragione è che questo momento “infernale”non è improvviso e inaspettato ma è stato costruito nel tempo a più mani, come si è fatto carico di ricordare lucidamente anche il centenario Edgar Morin su la Repubblica del 10 marzo: “dal 2014, il processo infernale di retroazioni conflittuali tra est e ovest si è aggravato e il peggio è arrivato nel febbraio 2022. Questo processo è stato provocato a uno stesso tempo dall’ambizione crescente di Putin, desideroso di inglobare la parte slava dell’impero russo nella sua sfera di influenza, e dall’allargamento concomitante della Nato intorno alla Russia. Più in generale, è determinato dai conflitti di interesse che si sono intensificati tra le due superpotenze dopo il periodo di intesa tra Bush e Putin nel 2001”. Dunque, piuttosto che dover scegliere tra libertà o vita, l’impegno di una responsabile politica europea avrebbe dovuto essere – e dovrebbe ancora essere – quello di mediare questi conflitti e portarli a negoziazione, prima che il popolo ucraino e l’umanità intera ne diventino le vittime sacrificali. Con la consapevolezza che ci aveva insegnato per tempo Günther Anders, oggi più vera che mai: “La tesi apparentemente plausibile che nell’attuale situazione politica ci sarebbero (fra l’altro) anche armi atomiche, è un inganno. Poiché la situazione attuale è determinata esclusivamente dall’esistenza di armi atomiche, è vero il contrario: che le cosiddette azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica” (Tesi sull’età atomica).

Sfuggire alla falsa alternativa

La seconda ragione prioritaria è il tema posto anche da Edgar Morin, a conclusione del citato articolo, dove si chiede “come trovare la via da percorrere tra debolezza colpevole e intervento irresponsabile?” Questo è il punto: come sfuggire alla falsa alternativa necessaria tra il rispondere irresponsabilmente alla guerra con più guerra e più armi oppure rimanere colpevolmente inermi. La risposta, in qualche modo, è accennata e contraddetta allo stesso tempo da Mancuso, il quale associa il “resistere in modo non violento mediante forme di disobbedienza civile” all’atteggiamento di chi è disposto “a piegarsi all’invasore accettando la sottomissione”. Un’equazione inconcepibile se fatta da chi, nell’articolo di qualche giorno prima aveva citato, seppur frammentariamente, addirittura Mohandas K. Gandhi. Su un piano etico e politico infatti, è almeno proprio dalla liberazione indiana dall’imperialismo britannico guidata da Gandhi che sappiamo che è possibile mettere in campo direttamente – e sostenere indirettamente – altri metodi di lotta e resistenza, dove i fini siano coincidenti con i mezzi utilizzati. Che sono tutt’altro che forme di sottomissione: hanno forse accettato di piegarsi nella sottomissione al razzismo gli afroamericani guidati da Martin Luther King nella lotta nonviolenta per i diritti civili? Vito Mancuso pensa davvero questo? Giusto per fare un esempio tra i tanti possibili…

Sostenere la resistenza civile, non armata e nonviolenta

Non si pretende, naturalmente, di decidere la forma di resistenza del popolo ucraino, ma i governi europei – se fossero coscienti dei rischi ai quali stanno sottoponendo l’umanità e non fossero subordinati agli apparati militari-industriali della Nato – dovrebbero promuovere e sostenere proprio la resistenza civile, non armata e nonviolenta di quel popolo, anziché versare benzina sul fuoco con l’invio di ulteriori armi nello scenario di guerra favorendone la rapida escalation. Non si tratta di coltivare visioni utopiche ma di rifarsi ad esperienze storiche concrete ed efficaci, come per esempio la resistenza danese durante l’occupazione nazista: il governo decise di non contrapporre alla potenza di fuoco della wehrmacht il piccolo esercito danese ed il popolo organizzò una grande e significativa resistenza non armata. Ne scrive anche Hannah Arendt ne La banalità del male: “L’aspetto politicamente e psicologicamente più interessante di tutta questa vicenda è forse costituito dal comportamento delle autorità tedesche insediate in Danimarca, dal loro evidente sabotaggio degli ordini che giungevano da Berlino. A quel che si sa, fu questa l’unica volta che i nazisti incontrarono una resistenza aperta, e il risultato fu a quanto pare che quelli di loro che vi si trovarono coinvolti cambiarono mentalità. Non vedevano più lo sterminio di un intero popolo come una cosa ovvia. Avevano urtato in una resistenza basata su saldi principi, e la loro durezza si era sciolta come ghiaccio al sole permettendo il riaffiorare, sia pur timido, di un po’ di vero coraggio. (…). Su questa storia” – che salvò, unico paese in Europa, il 98% degli ebrei danesi (ndr), continua Arendt – “si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università ove vi sia una facoltà di scienze politiche, per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori”.

Costruire il futuro anziché ripetere il passato

In attesa di fare lezioni in tutte le università – e magari, come chiedono da decenni i movimenti per il disarmo e la nonviolenza, di costituire i “corpi civili di pace”, capaci di fare interposizione non armata e nonviolenta tra le parti in conflitto, prima che degenerino in guerra aperta – un primo passo concreto per spingere le parti al necessario negoziato, anziché a spararsi sempre di più, è quello di dare sostegno, accoglienza e voce agli obiettori di coscienza ed ai disertori di entrambi i fronti che rimangono in questo momento gli unici “saltatori di muri, costruttori di ponti, esploratori di frontiera” (Alex Langer). Per questo perseguitati da entrambi i governi e ignorati dal resto del mondo. Infine, scrive ancora il professor Mancuso nell’articolo del 6 marzo, banalizzando la situazione come non ci si aspetterebbe da lui: “se un bambino viene malmenato da un energumeno non è che io non intervengo perché se no costui si arrabbia ancora di più”: avendo anni di esperienza educativa dietro le spalle, anche in situazioni conflittuali complesse, posso assicurare che qualunque educatore intervenisse in un’aggressione di un “energumeno” nei confronti di un bambino fornendo strumenti contundenti al bambino per menare anche lui – anziché agire immediatamente per separarli ed avviare la de-escalation del conflitto, prima di stabilire torti e ragioni – sarebbe licenziato in tronco. E sui tragici esempi che gli adulti continuano a fornire ai più giovani, affrontando ancora i conflitti con la violenza e con le armi, mentre si chiede a loro di non farlo, ci sarebbe da aprire un altro capitolo di profonda riflessione. Proiettata a costruire il futuro, anziché a ripetere ossessivamente il passato.

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