Welfare
Residence Ripamonti, da gennaio 2013 tutti in strada?
A fine anno si chiudono i rubinetti dei fondi dell'Emergenza Nord Africa, è allarme per i richiedenti asilo che non hanno trovato ancora alloggio e lavoro. Il caso-simbolo dell'hotel nel milanese, raccontato da chi opera in prima linea
Chi si ricorda i profughi arrivati dalla Libia ospitati dal giugno 2011 al Residence Ripamonti di Pieve Emanuele, alle porte di Milano? Ebbene, molti sono ancora lì. Ma ancora per poco, perché il 31 dicembre 2012 finisce il programma Emergenza Nord Africa, che finora ha assegnato loro e alle 20mila persone che sono arrivate in Italia in fuga dalla guerra un alloggio: da quel momento, chi non avrà trovato un altro punto di riferimento dove stare si troverà per strada. Proprio così. La conferma arriva da chi è rimasto in prima linea a occuparsi di loro, ovvero le decine di enti non profit che si sono rimboccati le maniche (ovvero che non hanno visto l’arrivo dei profughi come un business e hanno utilizzato la diaria che ricevono, fino a 46 euro al giorno per ogni richiedente asilo, per facilitarne l'integrazione) che ne seguono le vicissitudini legali, sanitarie e lavorative. Al Residence Ripamonti per esempio, dopo un anno di gestione della Croce rossa provinciale di Milano, dal giugno 2012 il timone è passato nelle mani della cooperativa Lule (‘fiore’ in albanese), che tra le tante attività offre sostegno agli immigrati in Italia. Vita.it ha raggiunto Anna Carnaghi, 30 anni, coordinatrice della Lule per il progetto ‘Sos italiano’ con i profughi di Pieve.
Quanti sono attualmente i profughi nel Residence?
Sono presenti 81 maschi, in prevalenza originari di Ghana, Mali, Costa d’Avorio, più alcune persone di Pakistan e Bangladesh. Nel giugno 2011 erano 450, un anno dopo, quando la Cri provinciale ci ha lasciato la gestione, 120. Ora purtroppo sono rimasti solo i casi più difficili, ovvero quelli che non sono rientrati nei permessi umanitari accordati e che sono stati per mesi in attesa di sapere se il proprio ricorso venisse accettato. La novità è che la Questura ha emesso un permesso speciale per un anno per tutte le persone arrivate sotto il periodo del programma Emergenza Nord Africa, quindi queste persone nell’immediato non rischiano il rimpatrio. Il problema sempre più urgente è che però con la chiusura fine anno del progetto non avranno più da un giorno all’altro un luogo dove dormire e, inevitabilmente, la gran parte dell’assistenza di enti come la nostra.
Non c’è altra soluzione immediata per i profughi che rimarranno ‘senzatetto’?
La Questura ha proposto loro il rimpatrio assistito, dicendo che lo mette a disposizione per 250 persone con un contributo di 1500 euro a testa. Il fatto è che probabilmente molto pochi accetteranno la cosa, dato che è un anno e mezzo che sono qua e sanno che al proprio paese non ci sarebbe futuro né per loro né per le proprie famiglie, che sperano di aiutare economicamente rimanendo a lavorare qui in Italia.
In un anno e mezzo le persone rimanenti non hanno trovato alternative?
Molti di quelli che non sono più qui sono riusciti a trovare un appoggio, un lavoro e si sono inseriti, a volte è capitato che nascesse anche qualche legame affettivo con italiane. So che almeno 80 di quelli che seguivamo ora hanno un’occupazione, anche se precaria e quasi esclusivamente non del tutto regolare. Gli altri, ovvero chi è ancora qui, spesso sono i giovani che anche a livello psicologico hanno subito più conseguenze, tanto da dovere ricorrere a cure mediche per combattere la depressione per l’immobilismo della loro situazione. Ora tutti stanno andando in giro a cercare alternative, ad esempio nei dormitorio, ma è dura, anche perché finora hanno avuto a disposizione un pocket money di 2,5 euro al giorno, non di più. Noi stiamo cercando di stimolarli e aiutarli, ma non li vediamo ancora del tutto coscienti di quello che accadrà dal 1 gennaio in poi, forse si aspettano qualche novità positiva per loro dalle istituzioni, che però rischia di rimanere un’illusione.
Come venite visti voi operatori?
C’è molto rispetto, siamo un punto di riferimento soprattutto dal punto di vista legale e sanitario, mettendo a disposizione un avvocato e un medico oltre all’equipe di quattro operatori. All’inizio avevamo cominciato in modo volontario a insegnare loro italiano, cosa che continua anche ora che dobbiamo gestire in toto la loro quotidianità, e il legame che si è creato è buono. Così come lo è in generale con la popolazione di Pieve Emanuele e dintorni, con la quale non si sono mai verificati problemi.
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