Cultura

Requiem per chitarra solista

Luca Doninelli. Il nuovo romanzo dello scrittore bresciano: emozionante e sacrificale

di Mimmo Stolfi

Genio e follia. Ecco il topos letterario che fa da sfondo all’ultimo romanzo di Luca Doninelli (La mano, Garzanti, L. 22.500). Un motivo che, dal romanticismo in poi, è stato declinato in tutte le salse, ma che Doninelli non teme di affrontare, affrontandolo con l’originalità del narratore di razza. Il motore della vicenda è la vita dannata di Jerry Olsen, il «più grande chitarrista del mondo», che ci viene raccontata attraverso le parole della sorella Isabel. Il suo è il monologo interiore di una mente ferita da esperienze limite – la droga, la sessualità orgiastica, la morte -, che danno la stura a un torrente di associazioni, a una sovrapposizione convulsa di ricordi strazianti in cui la precarietà delle difese nevrotiche nei confronti di un desiderio senza argini, deraglia spesso in un vero e proprio delirio. L’abilità di Doninelli è nel saper dominare questo delirio, renderlo intelligibile, trasparente come una preghiera, martellando, pagina per pagina, l’orrore di ciò che Isabel racconta fin quasi a farci entrare, nostro malgrado, nella sua logica esplosa e centrifuga. E chiunque sia dotato di una sensibilità appena decente non potrà non sentire sulla propria pelle lo strazio di Isabel, che è poi lo stesso dell’amato fratello Jerry. Del quale veniamo a conoscere la rivalità con Zac, l’altro chitarrista del gruppo, i cupi periodi di depressione attraversati dopo il declino della sua stella, i rapporti maledetti con le donne, la dipendenza dalle droghe, l’ossessione di ritornare alla ribalta piegando il suo talento di musicista, dal mood tutto emotivo e stillante good vibrations alle regole di un rock che impone ormai al chitarrista prestazioni atletiche più che espressive, in cui l’efficacia di un assolo è data non dall’intensità dell’interpretazione ma dalla velocità delle dita sulla tastiera.
Le dita, già. Le dita di quella mano sinistra che Jerry taglierà via da sé, con una mutilazione sacrificale che è poi un suicidio. Sì, perché di sacrificio-suicidio si tratta, un sacrificio che ricorda quello di Van Gogh. Si potrebbe infatti tranquillamente applicare anche a Jerry l’analisi che Georges Bataille ha fatto della auto-mutilazione dell’orecchio nel grande pittore olandese, proponendo un’equivalenza tra la mutilazione sacrificale di Vincent e il mito di Prometeo, sottratto alle facili appropriazioni dell’illuminismo che ne hanno fatto il simbolo dell’uomo che si ribella alla tirannia divina, e restituito alla sua sostanza tragica. Non c’è alcuna ragione perciò di separare l’orecchio di Arles o la mano sinistra di Jerry dal celebre fegato di Prometeo. In ogni sacrificio c’è un rifiuto tragico, una terribile libertà.
Si è detto del sacrificio di Jerry, ma la stessa Isabel che di questo sacrificio è testimone e memoria appare come il doppio del fratello, parte sopravvissuta di quello stesso corpo che si è dato la morte. Non può essere un mero caso la loro consanguineità. E qui credo che, se si voglia scavare a fondo nel densissimo racconto di Doninelli, forse può essere di aiuto ancora una volta l’antropologia. L’identico è sempre stato vissuto fin dai primordi come minaccia, fonte di disordine, perdita dell’identità. Lo stesso tabù dell’incesto (che Isabel e Jerry sfiorano) è inscrivibile nello stesso terrore dell’identico. Probabilmente, allora, la salvezza, sia pur per nulla garantita di Isabel, doveva passare attraverso il sacrificio di Jerry, quel «capro espiatorio», la cui immolazione, secondo un geniale antropologo, René Girard, restituisce l’ordine sconvolto…

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