La Repubblica Centrafricana è sempre più un inferno dove Lucifero è annidato nel cuore di chi acconsente ad un simile degrado. Mentre scrivo questo post, dando un’occhiata agli ultimi dispacci di agenzia, sembra che la diplomazia regionale stia svegliandosi dal letargo, ostentando però un atteggiamento quasi di rassegnazione. Sta di fatto che a N’Djamena, in Ciad, ieri si è palesato uno scenario a dir poco disarmante durante il vertice dei Paesi della Comunità Economica dell’Africa Centrale (Eccas). Tutti d’accordo i 10 capi di stato e di governo nel condannare le violenze contro i civili. Riaffermato anche l’impegno, in linea di principio, di garantire la loro incolumità aumentando, per esempio, il contingente di peacekeepers già sul campo da 2588 a 3652 uomini, con la proposta, ancora non chiara nella formulazione, di chiedere al Consiglio di Sicurezza dell’Onu un mandato più forte, che consenta di contrastare militarmente le fazioni che seminano morte e distruzione.
Il problema è che la Repubblica Centrafricana è in uno stato di anarchia, con la complicità proprio di alcuni di quei governi che ora vorrebbero trarla in salvo. E qui le responsabilità ricadono sia sul presidente ciadiano Idriss Deby, come anche sul suo omologo sudanese, Omar Hassan el Bashir. Insomma un bel pasticcio, considerando che l’ex potenza coloniale, la Francia, si è defilata trincerandosi dietro gli altisonanti proclami di Bruxelles che vorrebbe un maggiore decisionismo da parte dei leader africani. L’Unione europea (Ue), insomma, predica bene, anche se poi non è in grado di formulare un pensiero unico efficace. D’altronde, come abbiamo già scritto altre volte su questo Blog, gli interessi in gioco sono molteplici, legati al petrolio e all’uranio e i peacekeepers di cui sopra – dispiace doverlo scrivere – finora si sono dimostrati impreparati e disorganizzati, incapaci dunque di assolvere la loro missione. Da questo punto di vista, una delle poche voci in grado di denunciare il progressivo deterioramento della situazione, è l’’arcivescovo di Bangui, monsignor Dieudonné Nzapalainga, che ieri era a Ginevra per riferire al Consiglio per i diritti umani dell’Onu sullo stato della crisi umanitaria nei confini centroafricani, invocando un ruolo più efficace e meno coreografico della missione di peacekeeping dei Paesi africani nella risoluzione della crisi. Secondo il presule “non si conta il numero di abusi” sulla popolazione civile da quando i miliziani Seleka sono al potere, col risultato che le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno. “Persone uccise, case bruciate e donne violentate dai ribelli”. E poi estorsioni, torture, saccheggi…
Ricordiamo che il Centrafrica è devastato dagli scontri tra i ribelli dell’opposizione e le forze governative, a loro volta composte da ex ribelli della coalizione Séléka, saliti al potere con un colpo di stato il 24 marzo scorso, destituendo l’allora presidente François Bozizé Yangouvonda. Per la comunità internazionale, il conflitto centrafricano, militarmente parlando, può essere definito “a bassa intensità” (Low Intensity Conflict) se confrontato con altre crisi armate in giro per il mondo. Questo però non significa assolutamente, tengo a precisarlo, che possa considerarsi una guerra con una bassa incidenza di vittime. Anzi, le uccisioni di gente innocente in Centrafrica sono quotidiane, anche se mediaticamente parlando, per i grandi network massmediali internazionali, la crisi che affligge questo Paese è come se non esistesse. I delicatissimi problemi di “state-building” che caratterizzano alcune aree geografiche africane, unitamente all’ossessione delle compagnie straniere in cerca di fonti energetiche, trovano nel Centrafrica una metafora più che emblematica, in un contesto di per sé vulnerabile per le condizioni sociali estremamente precarie e l’eccezionale fragilità del sistema economico. I signori dell’Unione Europea, quelli che si lamentano degli sbarchi sulla sponda settentrionale del Mare Nostrum, farebbero bene ad operare un serio discernimento su quanto sta avvenendo a Bangui e dintorni. Prima che il Paese imploda definitivamente.
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