Economia
Report ForumDD: in Italia salari sempre più bassi
Il Forum certifica una situazione già nota: la povertà lavorativa è più accentuata tra le donne, tra i giovani dai 16 ai 34 anni, tra i meridionali e quanti hanno un contratto di lavoro part-time. Non solo: nel nostro Paese, nel part-time, sono prevalentemente impiegate le donne e la maggior parte di questa tipologia comntrattuale (per l'Ocse è più del 60%) è involontario
di Redazione
È stato pubblicato il Report del Forum Disuguaglianze e Diversità “I lavoratori e le lavoratrici a rischio di bassi salari in Italia”, da cui emerge che l’incidenza dei bassi salari sul totale dei lavoratori italiani è aumentata dal 25,9% registrato nel 1990 al 32,2% del 2017. Questa situazione di povertà lavorativa è più accentuata tra le donne, tra i giovani nella fascia 16-34 anni, tra i residenti al Sud e quanti hanno un contratto di lavoro part-time. Questo dato risulta significativo se si considera che in Italia nel part-time sono prevalentemente impiegate le donne e che la maggior parte del part-time (secondo i dati Ocse più del 60%) è involontario.
Non basta lavorare per essere al riparo dalla povertà. L’Italia, infatti, è l’unico dei Paesi Ocse in cui c’è stata una riduzione del salario medio tra il 1990 e il 2020 (circa 3 punti percentuali in meno). Nello stesso periodo sono aumentate anche le disuguaglianze salariali: nel periodo tra il 1990 e il 2017, l’indice di Gini del reddito da lavoro è passato dal 36,6% del 1990 al 44,7% del 2017.
Il fenomeno dei bassi salari, e della povertà lavorativa più in generale, è un grande tema per il nostro Paese. Il Rapporto del ForumDD fa emergere che nel periodo 1990-2017 la soglia relativa alla retribuzione bassa in Italia è diminuita (circa l’8% in meno), raggiungendo i 10.919 euro annui (erano 11.673 euro), e al tempo stesso l’incidenza dei bassi salari è aumentata dal 25,9% del 1990 al 32,2% del 2017.
Se si guarda ai soli lavoratori dipendenti privati, il Report inoltre mostra come la percentuale di lavoratori e lavoratrici che riceve bassi salari annuali oscilla tra il 26,8% e il 30% (a seconda che si consideri, rispettivamente, chi lavora più di 3 mesi l’anno o tutti coloro che hanno versato dei contributi nel corso del 2018).
Il Report mostra che l’aumento dei lavoratori e delle lavoratrici a basso salario dipende da due fattori: il salario orario e il tempo di lavoro. Per quanto riguarda il primo fattore, ha sicuramente inciso il cambiamento nella struttura occupazionale avvenuto negli ultimi trent’anni anni – con la crescita di settori come quello dei servizi a famiglie e turistici, nei quali la retribuzione non è sufficiente per uscire dalla spirale della povertà – e l’aumento dei contratti collettivi nazionali che coincide anche con una crescente tendenza al mancato rispetto dei minimi tabellari da essi fissati. Per quanto riguarda il secondo, hanno inciso le numerose riforme di deregolamentazione contrattuale che hanno permesso la moltiplicazione delle tipologie di contratti atipici e spesso precari, e la forte diffusione del part-time.
“Combattere il lavoro povero richiede di agire su più fronti. Occorre un salario minimo decente”, si legge nel Report, “contrastando, anche grazie al rafforzamento della contrattazione collettiva, sia la concorrenza al ribasso dei salari sia la frammentazione delle categorie contrattuali. Occorre più lavoro: la bassa intensità lavorativa è all’origine della povertà di tanti lavoratori. E occorre porre fine alla moltiplicazione delle forme contrattuali non standard, nonché rivedere il sistema degli ammortizzatori sociali e degli eventuali sostegni al reddito di chi resta lavoratore povero”.
Le prime indicazioni della legge di Bilancio per il 2023 non vanno nella direzione giusta. Al posto della riduzione delle forme contrattuali non standard, si re-introducono, potenziandoli rispetto al passato, i buoni lavoro che potrebbero arrivare a coprire sino a diecimila euro di remunerazione all’anno (in precedenza il limite era di 5.000), cifra non lontana da uno stipendio “normale” povero. Questo disincentiverebbe le imprese a ricorrere a rapporti di lavoro regolati e, quindi, a non pagare contributi per disoccupazione, malattia e maternità di lavoratori e lavoratrici. Nonostante si parli di controlli, la consistenza numerica degli ispettori, la polverizzazione del comparto in cui i buoni possono essere utilizzati e le non risolte difficoltà organizzative relative all’unificazione delle competenze nell’Ispettorato nazionale del lavoro, gettano più di un dubbio sull’effettiva possibilità di verifica. “Anziché impegnarsi ad offrire lavori decenti, si toglie il reddito di cittadinanza a chi rifiuta il lavoro, anche se a centinaia di chilometri dalla propria residenza, e fra otto mesi a tutti gli occupabili. E infine, flat tax e accettazione di un “normale” tasso di evasione segnalano la sostanziale rinuncia a pensare a uno schema universale di protezione del reddito, in cambio di qualche regalo limitato solo ad alcune categorie, che, oltre a essere in sé ingiusto, rappresenta una forma di protezione del tutto inefficace ai fini della copertura dei rischi sociali”.
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