La nostra Europa

Report di Draghi, 800 miliardi per fare che?

Se lo chiede provocatoriamente l'economista Marcello Esposito, di fronte ad alcune sfide «sottaciute» nel documento, come il protezionismo verso le grandi imprese che «fanno utili senza il bisogno di innovare». Al di là del green o delle spese per la difesa, bisogna rimettere al centro degli investimenti le istanze dell'economia civile e della società che cambia

di Nicola Varcasia

«La trasformazione può portare alla prosperità per tutti solo se accompagnata da un forte contratto sociale». Con queste parole si conclude il paragrafo sull’inclusione sociale dell’ormai famoso Report sul futuro della competitività in Europa, ad opera di Mario Draghi. Ok, tutti d’accordo, ma le parti di questo contratto sono state considerate nel loro insieme? Il documento redatto dall’ex premier su incarico di Ursula Von Der Leyen – a cui VITA ha già dedicato il Podcast che trovate poco sotto – dovrebbe dettare la linea della nuova Commissione da lei guidata (vicepresidenze esecutive permettendo). Logico attendersi una completezza di tematiche. Abbiamo girato la domanda all’economista della Liuc, Marcello Esposito, in un dialogo che rimette in gioco anche il Terzo settore, apparso piuttosto trascurato a una prima lettura del documento.

Qual è la sua prima impressione sul Report?

Positiva, per la disamina statistica e numerica dei numerosi ritardi dell’Europa in tanti settori.

Cosa la lascia perplesso?

La definizione delle cause di tali ritardi. Il Report sembra concentrarsi molto sugli aspetti industriali, ma poco sulle sfide vere che il nostro continente dovrà affrontare. Vengono considerate in maniera accidentale, quasi fossero delle concause, degli ostacoli e non il problema vero e proprio.

A cosa si riferisce?

In sostanza, all’aspetto demografico e all’invecchiamento della popolazione, che è la prima questione da cui dipende il resto, per noi e tutto il mondo sviluppato. Viene indicato solo come uno dei punti di attenzione di cui tenere conto per affrontare le tre sfide principali: difesa, digitalizzazione e transizione green.

Che cosa si perde con questa impostazione?

Mi spiego con un esempio. Prendiamo il problema del minor numero di lavoratori disponibili nel prossimo futuro e degli immigrati, a causa del quale bisognerà attingere alla disponibilità di nuovi lavoratori: non c’è accenno a come si potrebbe fare. Eppure, questo problema viene ancora prima delle sfide “settoriali” in cui investire gli 800 miliardi annui aggiuntivi di cui il documento parla.

Le dimensioni dell’intervento proposto sono in se stesse problematiche?

Non riesco a capire se questa cifra monstre sia un modo per lanciare un messaggio alla precedente Commissione rispetto alla transizione green o se sia un’indicazione vera e propria.

In che senso?

Se consideriamo la difesa, per realizzare l’obiettivo dell’esercito comune serve sostanzialmente la volontà dei membri dell’Unione. Non occorrono così tanti soldi per decidere di costruire un solo tipo di carro armato – per stare all’esempio citato nel report – anziché le decine usati oggi.

Possiamo discutere delle politiche Esg e se davvero queste frenino gli investimenti delle piccole e medie imprese, ma la difesa non rappresenta un impatto significativo rispetto a una cifra di 800 miliardi l’anno.

Lato digitalizzazione?

Da economista, sono ancora più perplesso. L’Italia è uno dei pochi paesi al mondo in cui vige l’obbligo della fatturazione elettronica per tutti, piccole e grandi aziende. C’è un limite all’uso del contante, a favore dei pagamenti elettronici. Se guardiamo al sistema creditizio, anche l’home banking è un asset che possiamo dare per acquisito.

Forse nella pubblica amministrazione?

Meglio non aprire il capitolo. Non perché manchino i soldi, anzi, ma perché non sappiamo usarli, bene come si vede da tanti progetti inutili del Pnrr. Come se la qualità dell’istruzione si potesse incrementare rifacendo un’altra volta i siti internet delle scuole. A che cosa ci riferiamo, allora, quando parliamo di digitalizzazione? Forse al cloud computing? Ma non si può imporre per legge la nascita di un gigante digitale. Oppure immaginiamo di creare una Apple o una Microsoft con gli eurobond?

Dal suo punto di vista, non resta che la transizione green in cui spendere questi 800 miliardi…

Questo è il punto. Forse ha ragione Del Debbio quando nella sua trasmissione ha detto che la relazione di Mario Draghi ricordava quella del presidente Napolitano alle Camere riunite per la sua  rielezione, nel quale – mi si perdoni la sintesi – accusava la classe politica di essere composta da perfetti buoni a nulla, scatenando al contempo gli applausi dei suoi principali protagonisti.

Fuor di metafora?

Il messaggio di Draghi sembra essere questo: cara Europa, ti sei auto imposta la transizione energetica, che è impossibile da raggiungere nei tempi prefissati. Inoltre, sta determinando il collasso dell’industria europea assieme all’ascesa dei movimenti di estrema destra. Ecco che per mantenere l’impegno servono 800 miliardi all’anno. Se questo è il messaggio, occorreva forse essere un po’ più espliciti.

Posto che la sfida fondamentale della società europea come l’invecchiamento della popolazione non si risolve con la digitalizzazione, la difesa o la green transition, come ne usciamo?

Qui entrano in gioco i temi del Terzo settore. Bisogna chiedersi come verrà organizzato il servizio: esclusivamente su base privata, pubblica o con una via di mezzo? Come impiegheremo le persone che vanno in pensione? Nel 2031 nessuno della mia generazione dei baby boomer classe 1963 sarà più al lavoro: che cosa faremo con loro? Non avremo a disposizione i robot che potranno accudire le persone veramente anziane. Ma questo è solo un punto.

Qual è lo scenario?

Quante saranno le persone sposate? E i nuclei familiari senza figli o con un figlio solo? Nel 2035, proprio l’anno previsto per l’avvento definitivo dell’auto elettrica, la rete familiare per come la conosciamo noi non esisterà più. Non basta dire che bisogna crescere creando – non si sa come – una nuova Amazon europea o un esercito continentale con le migliori dotazioni.

Che segnale è questo?

È la testimonianza del fatto che le tecnocrazie, viaggiando spesso in aereo a diecimila metri di altitudine, mentre spingono gli altri ad acquistare auto elettriche autoctone bloccando l’arrivo della concorrenza a minor prezzo, non hanno più alcun contatto con la realtà. Non vedono che cosa interessa realmente alle persone e non sono in grado di trovare delle soluzioni innovative ai problemi.

Cos’altro manca, a suo avviso, all’agenda della prossima Commissione a partire dal Report sulla competitività?

Manca un altro punto non esplicitamente citato nel Report: in Europa non abbiamo un sistema industriale innovativo perché gli Incumbent, le aziende preesistenti, sono protette dall’autorità. E in sistema super protetto, che interesse avranno mai le grandi aziende a innovare o a creare attorno a sé un ecosistema di piccole aziende e start up a cui affidare commesse importanti o da cui attingere idee gestionali, capacità manageriali e scientifiche nuove?

Ci fa un esempio di protezionismo del nostro sistema?

Ne faccio due, a livello finanziario, dove la questione è determinante. Quando la Bce ha alzato i tassi di interesse, le banche hanno mantenuto a zero, o quasi, i loro tassi sui conti correnti perché potevano farlo. Il fintech propone strumenti a prezzi di quattro o cinque volte superiori agli Stati Uniti. È un sistema bloccato, con una regolamentazione che protegge le grandi banche – e le grandi aziende –consentendo loro di generare profitti a sufficienza anche senza innovare.

È un tema fiscale?

È l’altro convitato di pietra. C’è voluta la Corte di Giustizia europea per obbligare l’Irlanda a recuperare i 13 miliardi dovuti da Apple. Anche nel rapporto Letta (del maggio scorso, ndr), che in passato si era espresso in maniera più esplicita, il tema della tassazione dei capitali in Europa è omesso perché è tabu, pur essendo uno dei veri motivi per cui l’Europa è rimasta indietro.

Quale scelta si dovrebbe compiere?

Il mercato unico, se vuole essere tale, deve uniformare la tassazione degli utili. Una tassazione distorta spinge le aziende nei paradisi fiscali. Non c’è motivo per cui un’azienda italiana debba trasferire la sua sede in Olanda.  

Le ricette del passato non bastano più?

Direi che sono parte del problema. Non è possibile affrontare la sfida numero uno che nei prossimi dieci anni toccherà sostanzialmente tutti, ossia l’invecchiamento della popolazione, senza ripensare totalmente l’economia.

Secondo lei è questo il vero piano Marshall?

È un compito ancora più difficile che stampare 800 miliardi di euro all’anno e regalare un’auto elettrica a ogni cittadino europeo, prima ancora di sapere se nella sua città esisterà una centralina dove ricaricarla. Bisogna aprire lo sguardo e coinvolgere direttamente l’economia civile, ecco la transizione che può far rinascere l’Europa a quei valori citati anche nel Report quali libertà, pace e prosperità.

La foto in apertura è tratta dal sito della Commissione Ue, da cui si può anche legggere il Report

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