Economia

Rendere efficiente l’insonnia: ultima frontiera del profitto

Siamo immersi in ambienti ibridi, fra natura e artificio, che catturano, si contendono, sovraccaricano la nostra attenzione. Si pone dunque un problema: possiamo diventare soggetti attivi di processi chehanno risvolti etico-politici, sociali e antropologici che ci coinvolgono nel profondo o saremo soltanto merce?

di Marco Dotti

Voci, volti, movimenti oculari, battiti di ciglia e persino la pressione dei polpastrelli sulla tastiera. È il bio-business dell’emotions analysis. Ed è in continua ascesa. Gli analisti di Bloomberg hanno previsto, da qui al 2020, una considerevole crescita di questo segmento del mercato del software. Nei prossimi quattro anni, il comparto di progettazione e sviluppo nel riconoscimento, tracciabilità e analisi delle emozioni dovrebbe così raggiungere un fatturato di 10 miliardi di dollari sul mercato globale, ma le stime paiono al ribasso. Emozione fa rima con attenzione, ma non è solo questione di rima.

Controllo totale

Nell’era del data mining – lo sfruttamento integrale dei dati – la forma è molto, ma la sostanza continua a essere tutto. E la sostanza è presto detta: ciò che può essere messo a valore, sarà messo a valore, ma perché ne derivi un profitto, dovrà essere trasformato in un insieme di dati coerenti ed elaborabili. Sono già molte, per esempio, le scuole canadesi che si sono dotate del classroom management software di Stoneware, una controllata della Lenovo, che consente di monitorare l’attenzione degli allievi in presa diretta. L’insegnante e il dirigente scolastico possono così rilevare all’istante, attraverso movimenti bulbo-oculari e micro contrazioni facciali, se lo studente è attento o finge di esserlo.

Un diagramma storico dei livelli di attenzione dell’allievo nel corso dell’anno dirà poi molte altre cose, non solo in termini di profitto o comportamento scolastico. Dirà, per esempio, se una soglia critica è stata superata e, in tal caso, se siano necessari provvedimenti farmacologici o clinici ad hoc. Anche se ama presentarsi come tale, nulla è meno neutro di un software, soprattutto in un frangente storico dove economia dei beni materiali ed economie dei benefici culturali si compenetrano, come non era mai successo prima d’ora.

Prendiamo la cosiddetta information economy. Se l’economia concerne l’allocazione di risorse, in regime di scarsità «qual è la risorsa più preziosa nel contesto dell’economia dell’informazione?», si chiede Richard A. Lanham nel suo The Economics of Attention (University of Chicago Press, 2006).

È forse l’informazione, la risorsa più scarsa? O sarà l’attenzione, che quella informazione richiede per essere effettivamente fruita? Il punto focale di questo mercato è proprio rivolto al bene immateriale più scarso e scarsamente capitalizzabile sul pianeta: l’attenzione umana. Come comprenderla, monitorarla, suscitarla o anticiparla? Come metterla a valore dalla scuola, ai media, dalla farmacologia alla pubblicità? I

n un lavoro che ha segnato il passo in questo ambito, The attention economy. Understanding the new currency of business (Harvard Business School, 2001), gli specialisti di management Thomas Davenport e John Beck propongono degli attentionscape, per tracciare i flussi di attenzione. Se un tempo, scrivono Davenport e Beck, l’attenzione «era considerata un dato acquisito, ed erano beni e servizi a essere considerati portatori di valore, in futuro molti fra questibeni e servizi verranno offerti gratuitamente», in cambio di qualche minuto di attenzione.

L’attenzione come nuova moneta, dunque. Qui più che altrove, le ibridazioni fra economia ed estetica, neuroscienze, scienze cognitive e della persuasione, studi culturali e computer science sono all’ordine del giorno. D’altro canto, che l’attenzione sia una risorsa scarsa è provato da un fatto tanto elementare, quando evidente.

Molte scuole canadesi hanno adottato un congegno che capta la distrazione degli allievi. Negli stadi e nelle arene le dance cam colgono cadute e picchi delle emozioni dei tifosi. Ogni dispositivo si trasforma in un apparato di cattura. L'attenzione è diventata la nuova moneta digitale

A chi non dorme

Nessuno può alterare il ciclo di 24 ore di una giornata, a meno di non voler produrre sugli altri e su di sé disturbi neurofisiologici e metabolici irreversibili. Anche nelle ore di veglia, l’attenzione di un soggetto si riduce a poche ore. Nessuno può contrarre le proprie ore di sonno fino a raggiungere uno stadio di insonnia efficiente, che garantisca, cioè, oltre all’astensione dal sonno, la piena efficienza produttiva.

Il sonno e i livelli di disattenzione necessaria al cervello umano per riprendere fiato sono però sempre più al centro di diversi tentativi di bioderegulation. Nel frattempo – questo ci spiega l’economia dell’attenzione – attenzione e disattenzione, sonno e veglia sono stati ampiamente ridefiniti. La disattenzione è diventata un disvalore socio-pedagogico da far passare attraverso le briglie della patologia. Ma il sonno, anche se concepito come lo standby di uno smartphone o di un pc, resta l’ultima barriera naturale che si frappone al flusso continuo produzione-consumo-riproduzione. Contro questo scoglio fisiologico vanno a sbattere ambizioni e pretese dei sistemi di mobilitazione, monitoraggio, consumo e controllo nel capitalismo avanzato.

Vendiamo porzioni di cervello umano disponibili

Patrick Le Lay



Lo racconta Jonathan Crary, in 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (traduzione di Mario Vigiak, Einaudi 2015), dove il sottotitolo originale (Late Capitalism and the Ends of Sleep), invero leggermente mutato nell’edizione italiana, rende al meglio il problema. Tardo capitalismo, non il capitalismo tout court, ma il capitalismo del post, quello che ambisce ai regni dell’insonnia funzionale e dell’economia dell’attenzione.

Crary docente alla Columbia, riprende qui alcune tesi già avanzate 15 anni or sono in un suo lavoro dedicato alla storia della colpevolizzazione della disattenzione e alla medicalizzazione dei soggetti disattenti. In Suspensions of Perception. Attention, Spectacle and Modern Culture (Mit Press, 1999), lo studioso osserva che, dal XIX secolo, soprattutto nel contesto delle nuove forme di produzione industriale di massa, la disattenzione inizia a essere trattata al tempo stesso come un pericolo e come un grosso problema tecnico-organizzativo. Proprio quelle forme di produzione erano infatti alla base di gran parte delle forme nascenti di disattenzione.

La modernità si nutre di attenzione, ma genera disattenzione. Caratteristica della modernità, specifica Crary, sembra dunque essere questa doppia elica: da un lato l’ossessione per l’attenzione, che deve essere alta, costante, mai disattesa; dall’altro, la tendenza a sviluppare sempre nuove tecniche di stimolazione psico-sensoriale e flussi di informazione che modificano le percezioni e il loro controllo, nelle fasi di tempo libero come in quelle di lavoro. Un gatto che si morde la coda, insomma. Ma oggi, più che dai gatti, è con le tigri, che le code lunghe del mercato si devono confrontare.

Venditori di cervelli

Quando nel 2004 Patrick Le Lay, al tempo direttore del canale televisivo generalista francese Tf1, affermò che lo scopo del suo canale era vendere porzioni di «tempo disponibile del cervello umano alla Coca Cola» stava forse dicendo qualcosa di diverso? Diverso era il contesto: non più la produzione industriale di massa sul modello di efficienza fordista, ma nuove forme di produzione, sviluppo e controllo in cui l’informazione è parte non solo integrata, ma essenziale del processo. Yves Citton, uno dei ricercatori che più si sono dedicati alla questione, nel suo Pour une écologie de l’attention (Seuil, 2014) ricorda che Le Lay indicava semplicemente con inusuale franchezza come oggi la nuova merce al centro della contesa per il potere mediatico (e non solo di quello) non sia l’informazione, ma l’attenzione – o, meglio, il tempo qualitativamente alto ma quantitativamente scarso dell’attenzione.

Se usciamo dal contesto televisivo – dopo tutto, sono passati 12 anni dalle parole di Le Lay – e ci caliamo nuovamente in quello del software integrato e dei Big Data, comprendiamo meglio che cosa significhi e quale sia la posta in gioco nell’economia dell’attenzione. Non c’è riforma scolastica, non c’è videogioco, non c’è dibattito su sicurezza, lavoro, tempi di attesa in ospedale, tempi di conseguimento di titoli di studio, tempi di pensionamento, aspettative di vita, ma soprattutto non c’è dispositivo tecnico che non si configuri, oggi, come un apparato di cattura delle porzioni disponibili dell’attenzione. E che pur di catturarle non offra gratuitamente quei beni e servizi di cui parlavano Davenport e Beck. Ma a quale scopo?

Oggi, nei palazzetti americani dove giocano le star della Nba, particolari telecamere dette dance cam riprendono balli, smorfie, capriole improvvisate non da quelle star dopo una vittoria o un canestro, ma dai tifosi, mandando on air le sequenze più bizzarre e divertenti. E quelle telecamere, costantemente rivolte sul pubblico, si fanno carico di un altro lavoro oscuro: monitorano la loro attenzione, colgono cadute e picchi della loro emozione.

Questo è il primo passaggio. Trasformare e elaborare quelle tracce in dati è il secondo. Il terzo punto, quello meno evidente, unisce il “come” al “dove”: si tratta di mettere a posto quei dati, ma l’ambito in cui quei dati – debitamente elaborati – ricadranno non è sempre evidente.

L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono.

Simone Weil

Dall’epidemiologia alla sicurezza, dal profiling che può affiancare colloqui psicologici o di selezione del personale, fino all’uso per posizionare tipologie di soggetti all’interno del nascente sistema clinico dei cluster, il mercato dell’attenzione è una prateria potenzialmente aperta su ogni aspetto dell’umano. La sovrastimolazione dell’attenzione, gli apparati di analisi e controllo, di produzione e consumo che ne derivano, ma anche le relazioni di potere che questi implicano e sottendono, devono così – ammonisce Citton – essere portati con urgenza al centro delle nostre analisi, etiche, economiche, politiche in senso lato, non tanto della nostra indignazione. Imparare a gestire le proprie “risorse attenzionali” in funzione di una competizione integrale, 24 ore su 24 per 7 giorni su 7 come ricorda Crary, piegando persino il sonno alla logica della performance o piuttosto ricalibrare in forma ecologica i frammenti ancora non colonizzati della nostra attenzione. Non sembra esserci una terza via.

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