Welfare

Reinserimento dei condannati cercasi…

Una lettera di un volontario dell' associazione "vita nuova" che opera nel carcere di Tolmezzo, in provincia di Udine

di Cristina Giudici

G entile redazione, mi chiamo Bruno Temil e sono un assistente volontario dell?associazione ?Vita nuova? di Tolmezzo. Vorrei mandare una lettera aperta al ministro di Grazia e Giustizia attraverso ?Lettere dal carcere? per esprimere la mia delusione, ma soprattutto lo sconforto provato nel non vedere riconosciuto dalla legge quei fondamentali diritti di equità e di umanità tanto sbandierati nel nostro Paese. Mi riferisco alla legislazione che consente ai detenuti di usufruire dei benefici previsti, quali le misure alternative, e i permessi premio. È proprio sul problema della concessione dei permessi premio che vorrei focalizzare il mio intervento. Credo che lo spirito della legge di riforma dell?ordinamento penitenziario n°354 del 1975 e in particolare la 663/86, meglio conosciuta come legge Gozzini, sia quello di consentire che la pena non sia fine a se stessa, ma invece contribuisca al recupero e reinserimento sociale delle persone condannate. Si parla spesso a sproposito sul significato del recuperare una persona dietro le sbarre. Chi scrive opera da oltre quattro anni come volontario nel carcere di Tolmezzo, in provincia di Udine, con l?impegno di rendere meno traumatico a quanti sono reclusi il distacco con la realtà. Finora ho seguito molti casi, ma uno in particolare merita essere segnalato, forse perché rientra fra gli infiniti episodi di ?giustizia cieca?. Si tratta di un ?ragazzo?, Salvatore Auriemma, entrato in carcere nel 1981, a soli 24 anni, e che oggi comincia a intravedere in fondo al tunnel la luce del ?fine pena?. Eppure, a pochi mesi dalla sua scarcerazione, gli è stato negato un permesso premio. Salvatore ha, infatti, una denuncia per oltraggio non ancora estinta e in seguito alla scarcerazione sarà soggetto a un provvedimento restrittivo della libertà (misura di sicurezza), ma al di là di questo mi chiedo: perché non si cerca di valutare e comprendere che questo permesso, non concesso (il primo di tutta la sua carcerazione) e dichiarato inammissibile dal magistrato, era finalizzato proprio a un indispensabile contatto esterno con i propri genitori e a un possibile progetto di reinserimento sociale? Eppure c?erano i pareri favorevoli dell?équipe di osservazione interna al carcere, formata dal direttore, l?educatrice, l?assistente sociale. Il sottoscritto si è inoltre offerto di fare da acompagnatore durante il permesso. Ma che razza di recupero si prefigge la legge se poi non cerca di usare anche il buon senso e compie generalizzazioni avendo paura di assumersi responsabilità, solo perché episodi negativi hanno caratterizzato i permessi premio in questi ultimi mesi ? Come può una persona, alla quale è mancato negli anni precedenti un vero ?programma trattamentale intramurario?, essere scaricato a fine pena ai servizi territoriali esterni senza che prima abbia potuto avvalersi di un recupero dei legami sociali esistenti?
Ho conosciuto Salvatore sei mesi fa e ho cercato di offrirgli la mia disponibilità come motivo di speranza nel futuro. Il permesso era un?opportunità per consentirgli di ritrovare fiducia in se stesso e negli altri. Così non è stato. Chissà quanti altri poveri cristi ci sono dentro le gabbie del nostro sistema carcerario senza che ciò interessi a nessuno. Come volontario chiedo più umanità nell?applicazione delle leggi e meno rigidità nell?interpretazione della giustizia. Il rischio di sbagliare ci sarà sempre, ma l?importante è non perdere mai la speranza di poter migliorare la società. «La radice più profonda della giustizia è la misericordia», diceva sempre don Cesare Curioni, ispettore generale dei cappellani delle carceri scomparso recentemente. È utopia la mia?
Bruno Temil, Tolmezzo

Domande difficili le sue, signor Temil. La legge non funziona sia la legge è sempre un approssimazione, sia perché sono gli uomini ad applicarla, uomini che fanno parte di una società che verso il carcere ha un rapporto ambivalente e controverso. Da una parte il carcere serve a rassicurare chi teme l?uomo nero, diverso e cattivo, dall?altra, invece, riesce ad attivare chi come lei è ispirato, come mi sembra di capire, da una fede profonda oltre che da principi umanitari e garantisti. Non bisogna dimenticare che in carcere, però, succede ciò che succede fuori dal carcere: le opinioni vengono dettate dall?emotività del momento, spesso stuzzicata dai giornali, e dal senso comune. E il senso comune della gente spesso dice che chi delinque deve stare dentro e non fuori. Ritengo che il carcere vada visto per quello che purtroppo è: un frullatore di problemi e disagi sociali che la società non è in grado di risolvere. Per fortuna le leggi ci sono e bisogna applicarle, come dice il direttore degli Istituti di pena, Alessandro Margara. Non bisogna dimenticare che l?ordinamento penitenziario prevede una funzione rieducativa della pena. La pena (e il carcere) deve rieducare, ma anche a punire. Forse per questo il direttore di San Vittore, Luigi Pagano, in un?intervista ha detto a ?Vita?: «Il carcere migliore è quello che non c’è». In ogni caso rigiro la sua lettera al ministro, nella speranza che la voglia ascoltare.

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