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Regolamento di Dublino: le divisioni europee e il programma in dieci punti dell’Italia

«La convenzione di Dublino del 1990 è stata pensata in funzione principalmente dei richiedenti protezione dei paesi dell’est europeo. I cambiamenti successivi non hanno modificato quest’impostazione. Ora è necessaria una riforma su cui l'Italia ha avanzato una proposta». L'analisi in dieci punti della visione italiana sul tema delle migrazioni in Unione Europea di Nino Sergi, presidente emerito di INTERSOS e policy advisor di LINK 2007

di Nino Sergi

La convenzione di Dublino del 1990, stipulata con l’obiettivo di armonizzare le politiche in materia di asilo, per garantire ai rifugiati un'adeguata protezione, è stata pensata in funzione principalmente dei richiedenti protezione dei paesi dell’est europeo. Non poteva quindi prevedere gli arrivi via mare che si sono manifestati due decenni dopo. Per evitare duplicazioni di richieste, è stato fissato che lo Stato membro a cui compete l'esame della domanda d'asilo e l’accoglienza è quello del primo ingresso del richiedente. Se una persona che presenta istanza di asilo in un paese dell'UE attraversa illegalmente le frontiere verso un altro paese deve essere riconsegnata al primo Stato.
I successivi Regolamenti di Dublino II (2003) e Dublino III (2013) non hanno modificato quest’impostazione, limitandosi ad introdurre alcune precisazioni tra le quali: impronte digitali di coloro che fanno richiesta di asilo e loro inserimento in una banca dati a livello europeo, da cui si può conoscere dove è stata fatta la prima domanda; nuove definizioni su parenti e rappresentante del minore; obbligo di considerare sempre l’interesse superiore del minore e più ampie possibilità di ricongiungimento e più garanzie per i minori; modalità e costi dei trasferimenti; meccanismo di allerta rapido, di preparazione e di gestione di crisi particolari.

Necessità della riforma
Secondo l'UNHCR, il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli, varie organizzazioni sociali e dei diritti umani ed alcuni Stati membri, il sistema attuale non è riuscito a fornire una protezione equa, efficiente ed efficace, conducendo ad una distribuzione ineguale delle richieste d'asilo tra gli Stati membri. Il Parlamento europeo ha proposto una riforma che tenta di coniugare fermezza e solidarietà, con regole chiare e incentivi a seguirle: il primo paese di arrivo non sarà più automaticamente responsabile ma si cercherà di facilitare l'inserimento sociale basandosi su reali legami con uno Stato membro, quali la famiglia, l'avervi già vissuto in precedenza o gli studi, facilitando i ricongiungimenti familiari; in assenza di simili legami, i richiedenti asilo verrebbero automaticamente assegnati ad uno Stato membro dell'Ue in base ad un meccanismo automatico di redistribuzione secondo un sistema di quote obbligatorie, per evitare che gli obblighi internazionali ricadano sugli Stati in prima linea e per accelerare le procedure di asilo; i paesi che rifiuteranno i ricollocamenti dovrebbero avere un accesso limitato ai fondi UE.

Il Consiglio europeo e il ruolo dell’Italia
Il Consiglio europeo si sarebbe dovuto pronunciare su tale proposta nel vertice dei 28 e 29 giugno prossimi. La riunione preparatoria dei ministri dell’Interno europei, il 5 giugno a Lussemburgo, ha mostrato solo divisioni ed è stata un fallimento, con un’assenza del ministro italiano che ha dichiarato che "il governo italiano dirà no alla riforma del regolamento di Dublino e a nuove politiche di asilo". Strana decisione, dato che l’Italia avrebbe potuto far valere le proprie ragioni per migliorare ulteriormente la proposta secondo i propri interessi, come sarebbe stato istituzionalmente corretto.
Il Prevertice informale di domenica 24 giugno ha permesso al presidente Conte di porvi rimedio, presentando le proprie proposte, che sono ora oggetto di riflessione e valutazione insieme a quelle degli altri 16 leader europei presenti. La proposta italiana non si limita al solo Regolamento di Dublino ma lo inquadra in un “radicale cambio di approccio”: “integrato, multilivello, che coniughi diritti e responsabilità”. Una proposta che i leader europei hanno attentamente ascoltato, perché esposta con ragionevolezza, senza scadere nella commedia politica e senza quelle improduttive minacce suggerite da membri del governo italiano.

Le decisioni in atto e la proposta italiana
I dieci punti illustrati dal presidente Conte riprendono molto di quanto già definito o programmato dall’UE (Approccio globale in materia di migrazione e mobilità, Agenda europea sulla migrazione) e di quanto contenuto nelle proposte italiane del “Migration Compact” del 2016. Hanno comunque il merito di rivitalizzarlo, partendo dalla dichiarazione “chi sbarca in Italia sbarca in Europa”. Manca però, e non è poca cosa, la coerenza richiesta, forse a causa della troppo frettolosa messa insieme del decalogo. L’esagerata pretesa di mostrare che “noi in 15 giorni abbiamo fatto ciò che altri non hanno fatto in anni” rischia di produrre spiacevoli effetti boomerang, specie su una materia così complessa. C’è comunque del positivo nei dieci punti, alcuni dei quali andrebbero ulteriormente valorizzati. Come ci sono gravi contraddizioni a cui il Governo dovrebbe porre rimedio per non far perdere credibilità alla propria proposta. Come ci sono omissioni che occorrerebbe colmare se si vuole veramente un nuovo “approccio integrato, multilivello, che coniughi diritti e responsabilità”, passando “dalla gestione emergenziale alla gestione strutturale del fenomeno dell’immigrazione, come chiedono le pubbliche opinioni”.

Uscire dalla contraddizioni
Sarebbe necessario innanzitutto – e vale anche per tutti gli Stati membri – uscire dalle contraddizioni ed iniziare a cedere sovranità all’UE in merito alla gestione del fenomeno migratorio. Non si può infatti continuare a chiedere aiuto all’Unione e al tempo stesso essere sovranisti e decidere in autonomia e in contrapposizione; chiedere all’UE un’efficace politica di regolazione e gestione dei flussi, con un approccio integrato, con più controllo delle frontiere e più lotta ai trafficanti di esseri umani, ed al contempo voler mantenere il controllo sulla gestione degli sbarchi e sul trattamento dei migranti, rifiutando di delegare a Frontex la gestione del Canale di Sicilia e del Mediterraneo italo-libico; pretendere di potere ignorare principi comuni rifiutando l’accesso alle navi umanitarie e lasciando morire persone in mare; favorire, dopo la registrazione, la fuga di migranti verso altri Stati europei senza previ accordi.

Probabile rinvio delle decisioni
Il Consiglio europeo si pronuncerà tra giovedì e venerdì di questa settimana. Probabilmente saranno riaffermati principi comuni e sarà rimandata alla prossima presidenza austriaca l’elaborazione di una nuova proposta di revisione del Regolamento di Dublino. Soffermiamoci nel frattempo sui punti della proposta italiana.

La visione italiana, punto per punto.

  • 1. Intensificare rapporti e accordi e tra l’UE e i Paesi da cui partono o transitano i migranti e investire in progetti. Si tratta di un orientamento già avviato a livello sia comunitario che bilaterale. L’Italia, ad esempio, è riuscita a firmare accordi di riammissione (non facili) con quattro Stati: Tunisia, Marocco, Egitto, Nigeria. Mentre realizza con vari paesi di origine e di transito partenariati e progetti di sviluppo. L’UE da sempre sta molto investendo, con accordi pluriennali, su programmi di sviluppo e di lotta alla povertà in tutti i principali settori, ed ha in programma un vasto piano pluriennale per favorire investimenti produttivi ad alta occupazione. E’ certamente una direzione da rafforzare e qualificare, coordinandola sia a livello italiano che europeo.
  • 2. Centri di protezione internazionale nei Paesi di transito. Nel quadro dei più vasti programmi europei o messi in atto dagli Stati membri, anche l’Italia sostiene organizzazioni internazionali, ed in particolare l’OIM e l’UNHCR, per l’apertura e la gestione, nei paesi di transito dei migranti, di centri di protezione e accoglienza, di verifica delle richieste di asilo, di assistenza al rimpatrio volontario nei paesi di origine. Partecipa inoltre al rafforzamento delle strutture nazionali incaricate nei paesi di transito del controllo delle frontiere e del contrasto all’immigrazione illegale. Altri centri di transito, protezione e consulenza sarebbero utili in tutti i paesi delle principali rotte migratorie ma richiedono la costruzione di profondi rapporti di partenariato con i governi di tali paesi e la cancellazione di ogni mira impositiva, di stampo neocoloniale, che non avrebbe futuro. La Libia rifiuta i centri di protezione. Strano, dato che esistono già molti centri, sotto forma di luoghi detentivi di sfruttamento, abuso e traffico di esseri umani. Occorrerebbe solo la volontà politica di trasformare queste realtà diffuse sul territorio liberandole dalla disumanità. Forse le bande criminali stanno impedendo che tale volontà possa esprimersi.
  • 3. Rafforzare le frontiere esterne. Senza definire quali sono le frontiere esterne dell’Europa, diventa difficile rafforzarne il controllo. La tendenza a spostarle in aree che nulla hanno a che vedere con l’UE (dall’UE alla Libia, dalla Libia al Niger, al Ciad, al Mali, al Sudan, come si sta immaginando con una mentalità padronale e coloniale che pensavamo superata) favorirà lo spostamento del problema ma certo non la sua soluzione.
  • 4. 5. 6. e 8. Superare Dublino e il criterio del Paese di primo arrivo. Chi sbarca in Italia, sbarca in Europa. Responsabilità comune tra Stati membri sui naufraghi in mare per non far ricadere tutto sui Paesi di primo arrivo. Centri di accoglienza in più paesi europei per salvaguardare i diritti di chi arriva e evitare problemi di ordine pubblico e sovraffollamento. Sono richieste ragionevoli. Che richiedono da un lato coerenza e disponibilità a cedere sovranità all’Unione e dall’altro dialogo costruttivo con gli altri Stati membri per trovare insieme le migliori decisioni, in un processo forse graduale ma con una decisa prospettiva di rafforzamento dell’UE a beneficio di tutti, data la complessità e durevolezza delle migrazioni e il rischio di isolamento e insignificanza nella crescente globalizzazione. Per gli immigrati salvati in mare è possibile conciliare le due contrapposte visioni europee, tra chi pensa a centri di accoglienza, assistenza e verifica nei paesi europei di primo ingresso e chi pensa a centri in paesi esterni all’UE. Si tratta in realtà di impuntature fuori dalla realtà, ai soli benefici di consenso interno, dato il numero sempre più limitato degli sbarchi. E’ certamente possibile avere centri di accoglienza sia in paesi europei mediterranei – dove peraltro già esistono – sia nei paesi di transito che lo consentiranno. Gestiti con il pieno supporto dell’UE che ne coprirà anche i costi, al fine della selezione di chi ha diritto alla protezione internazionale (considerando anche quella umanitaria, non meno importante) e chi deve essere rimpatriato, con l’assistenza delle organizzazioni internazionali.
  • 7. L’Unione europea deve contrastare, con iniziative comuni e non affidate solo ai singoli Stati membri, la tratta di esseri umani e combattere le organizzazioni criminali. Nessun commento, tanto è evidente. Si tratta di rafforzare, in modo deciso a livello nazionale e internazionale, quanto già si sta facendo.
  • 9. Contrastare i movimenti secondari, intra-europei, di rifugiati, con intese tecniche tra paesi maggiormente interessati. Si tratta di un punto che altri Stati rimproverano all’Italia che ha favorito la fuga di richiedenti asilo in altri Stati europei, senza alcuna forma di intesa. Il problema potrebbe essere superato, come sostiene l’Italia, con la ripartizione dei rifugiati su tutti i paesi europei.
  • 10. Stabilire quote di ingresso dei migranti economici. Prevedere contromisure finanziarie rispetto agli Stati che non si offrono di accogliere rifugiati. Corrette sono le sanzioni agli Stati che contravvengono al criterio di condivisione e solidarietà che deve rimanere un punto cardine dell’UE. Quanto alla definizione di quote di ingresso dei migranti, più ampie delle limitatissime attuali, occorre che contemporaneamente si provveda alla piena emersione dell’esistente e quindi alla fine della fase emergenziale. La regolarizzazione di chi vive ed è inserito in Italia è un provvedimento indispensabile, che non deve essere ulteriormente procrastinato, “altrimenti alcune centinaia di migliaia di persone continueranno a rimanere irregolari e ‘non visibili’, con i rischi che ne possono conseguire in termini di precarizzazione, di sfruttamento, di isolamento, di condizioni favorevoli alla criminalità, di sicurezza”, come evidenziava alcuni mesi fa la rete di Ong LINK 2007. Si tratta di identificare e di togliere dall’irregolarità quanti già lavorano in Italia e quindi più facilmente integrabili. Un’identità riconosciuta è la base per ogni processo di integrazione. Occorre poi superare l’attuale legislazione e ristabilire quanto prima la possibilità e le modalità di ingressi regolari per lavoro. Solo l’apertura di canali di ingresso legali può facilitare la chiusura dei canali illegali controllati normalmente da organizzazioni criminali. Il rapporto con l’Ue per la ripartizione dei rifugiati e beneficiari di protezione ed il superamento degli accordi di Dublino richiedono inoltre una severa coerenza da parte italiana: la distribuzione dei rifugiati e richiedenti asilo in tutti gli 8000 comuni italiani, invece dei soli 2700 che partecipano al sistema di protezione SPRAR, potrebbe essere un forte segnale ai paesi europei e rappresentare un elemento di forte pressione politica sull’UE.

*Nino Sergi è presidente emerito di INTERSOS e policy advisor di LINK 2007

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