Politica
Referendum, Giro: «La vittoria del Sì sarebbe un volano per la società civile»
Il viceministro agli esteri e alla cooperazione internazionale: «Una politica più autorevole saprà aiutare a rifare forte il collante del paese e suscitare dalla base forme di rappresentanza ora indebolite. Perché non è vero che i corpi intermedi stiano meglio dei partiti: la crisi della politica impotente è anche quella della società civile organizzata. I due aspetti sono legati»
di Redazione
Un sì deciso e circostanziato, quello che il viceministro agli esteri e alla cooperazione interneazionale Mario Giro affida alle colonne di Vita.it. E soprattutto un appello alla società civile e ai corpi intermedi (Giro è una delle figure di spicco della comunità di sant’Egidio): non arroccatevi su vecchie posizioni, il sì al referendum costituzionale: « In questo vasto mondo, un po’ come nella politica, c’è chi è nostalgico dei vecchi cerimoniali che davano loro una briciola del potere diffuso».
Perché voterà sì al referendum?
Per cambiare. I riti della politica della prima repubblica oggi sono superati. Lo si desume dallo scollamento che si è creato tra la politica e l’opinione pubblica. La gente è sfiduciata perché la politica non è più all’altezza della sfida, sembra impotente. Diminuire un po’ la ritualità del passato (e del presente) è un modo per avvicinarsi alla realtà. Capisco che si tratta di riti rassicuranti, con una loro valenza simbolica, ma ora si può cambiare. Il nostro sistema era disegnato per non concentrare il potere ma spargerlo. Questo era il senso del proporzionale puro e della costruzione voluta dai padri costituenti. Il potere diffuso si è rivelato pervasivo ad ogni livello: la politica e la società si sono trovate strettamente connesse, tramite i partiti, quasi intrecciate. E’ stato un modo per imparare la democrazia. Finché ha potuto rispondere ai cittadini dando qualcosa in cambio, il sistema ha funzionato. Ora ci rendiamo conto che non funziona più: da una parte ci lascia in eredità un enorme debito pubblico; dall’altra è divenuto una rete e ritualità vuote che si autoalimentano, si autoriproducono soltanto. Il potere diffuso è divenuto deresponsabilizzante e autoreferenzialità, una parte delle malattie del paese. La gente se ne è accorta da tempo e lo ha rifiutato, talvolta in maniera veemente. Si è aperta la strada ad avventure, a salti nel buio. La politica deve dunque riformarsi, darsi una nuova autorevolezza. Ciò può avvenire soltanto da un riconcentrare il potere –molto relativo invero- e da una ritualità nuova, meno accondiscendente con se stessa, più pronta ad interfacciarsi con le sfide reali. Abbiamo discusso per 20 anni del superamento del bicameralismo perfetto e delle riforme senza veramente volerle. Facevamo solo finta di dibatterne: un rito vuoto appunto, buono solo a riempire pagine di giornali. È venuto il momento di svoltare.
Dal suo punto di vista gli esiti del referendum costituzionale potranno avere un effetto sulla percezione internazionale del nostro Paese e quindi sulla nostra politica estera?
Certamente ci guardano con interesse se proseguiamo sulla strada del cambiamento, della stabilità. All’Italia un po’ folkloristica e sonnolenta del passato, un paese sempre uguale nei suoi pregi e difetti, che cambiava governo ogni anno, si sostituisce un’Italia più stabile, che cerca strade nuove, che non si accontenta, che non pensa “si è sempre fatto così”, che esce dalla routine. Ma noi lo facciamo per noi stessi, non per il giudizio degli altri.
Quali i rischi di una vittoria del no?
Credo che vinceranno i Sì. Vedo un rischio solo se si connettono da una parte gli oppositori del Premier, quello che tentano di usare il referendum per far cadere il governo, non interessati alla materia ma solo al proprio destino politico, dall’altra una certa abitudine italiana ad accontentarsi di ciò che già esiste, l’abitudine alla routine. Se questi due atteggiamenti si connettono, c’è un pericolo. Per questo occorre spiegare le ragioni del SI’ in maniera chiara, come una svolta per tentare di essere più vicini ai bisogni e meno alle ritualità, più esposti alle sfide e meno autoreferenziali. Una politica più autorevole che aiuti di più i cittadini e si ammanti di meno delle sue cerimonie. Non bisogna cadere nella trappola dei sostenitori del NO che vogliono un dibattito solo politicistico, tutto interno alle logiche dei palazzi, come un referendum sulla figura di Renzi o simili cose.
Confindustria si è subito espressa per il sì. Crede che questa sia la posizione anche degli investitori stranieri e del mondo della finanza internazionale?
La finanza internazionale e il mondo delle imprese sono interessati ad avere un paese efficiente da un punto di vista giuridico, della sicurezza degli investimenti e dal punto di vista economico. Non c’è diretta attinenza con i contenuti del referendum, a meno che non si voglia legare assieme cambiamento e crescita. Ma la crescita dipende anche molto dal quadro internazionale… direi che le imprese tendono ad altro. Sono più interessate alla riforma della giustizia che a quella istituzionale. Molto più interessata al referendum è la società civile organizzata, quella delle ONG o del Terzo settore, quella dei corpi intermedi per intenderci. In questo vasto mondo, un po’ come nella politica, c’è chi è nostalgico dei vecchi cerimoniali che davano loro una briciola del potere diffuso. Così ha maturato un atteggiamento contrario, ma si tratta di pura sopravvivenza. Molti invece vedono nelle riforme un’occasione di rilancio: una politica più autorevole saprà aiutare a rifare forte il collante del paese e suscitare dalla base forme di rappresentanza ora indebolite. Perché non è vero che i corpi intermedi stiano meglio dei partiti: la crisi della politica impotente è anche quella della società civile organizzata. I due aspetti sono legati.
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