Welfare
Reddito di cittadinanza: si può fare davvero?
«Sì, ma deve essere attivo». L'intervento di Marco Revelli sul numero di aprile di Vita apre il dibattito. Dicono la loro Luigino Bruni, Leonardo Becchetti, Gianni Bottalico e Mauro Gallegati, l'economista dell'M5S
L'idea di istituire un "reddito di cittadinanza" è stata lanciata dai 5Stelle in campagna elettorale. L'Italia è l'unico paese dell’Unione europea, insieme a Grecia e Ungheria, a non avere uno strumento di garanzia al reddito. Sul numero di aprile (da venerdì 5 in edicola e nelle librerie Feltrinelli) VITA ha messo a confronto su questo tema-provocazione 5 protagonisti del pensiero socio-economico: Marco Revelli (vedi il suo contributo qui sotto), Luigino Bruni («Sì, ma basta che sia lavoro vero»), Leonardo Becchetti («Così si riconcilia economia e felicità»), Gianni Bottalico («Dico no: è solo una misura di facciata») e Mauro Gallegati, l'economista di riferimento del Movimento di Beppe Grillo (che dice: «Sì, ma pensiamo anche a un "reddito di inserimento" per i giovani»).
Ecco l'intervento di Marco Revelli.
L’ Italia è l’unico paese nell’unione europea – insieme a Grecia e Ungheria – a non possedere nessuno strumento istituzionale di garanzia di un reddito minimo a carattere universalistico. E i risultati purtroppo si vedono: abbiamo uno dei tassi più elevati di povertà relativa, calcolata dall’Istat su una percentuale vicina al 13 per cento e da Eurostat addirittura vicina al 20 per cento! Siamo il penultimo Paese nell’Europa a 15 anche per la povertà assoluta. Abbiamo uno dei tassi di povertà più gravi tra le famiglie dei lavoratori (quasi una famiglia operaia su sette e in condizione di povertà relativa). Persino tra i giovani laureati si stanno registrando livelli di povertà significativi, segno che la piaga colpisce ormai in tutti i comparti sociali.
Per questa ragione è urgente l’introduzione di un qualche istituto di garanzia del reddito. Lo si può chiamare in diversi modi, come d’altra parte sono articolati i sistemi applicati nei diversi paesi europei. Un paio di anni or sono la Caritas Ambrosiana propose un’affascinante formula di “reddito minimo di autonomia”, a sottolineare il fine prioritario di un intervento pubblico di questo tipo, legato a un valore fondante di un “diritto naturale” come appunto quello a poter mantenere il controllo sulla propria esistenza senza essere costretti dall’indigenza in una condizione servile.
La proposta di un “reddito di cittadinanza attiva” avanzata ora da Vita rientra in questa dimensione creativa di ridefinizione del welfare, diretta a fare tesoro degli insegnamenti di questi anni. E mi piace molto per l’impatto che essa avrebbe sulla rete di relazioni, o se si preferisce sul valore di legame che essa mette in gioco, favorendo oltre all’accesso ad un reddito monetario adeguato a una sobria esistenza, anche la produzione di un livello di socialità qualificato.
La costruzione cioè di relazioni di mutuo aiuto tra i percettori del reddito e i percettori dei servizi da questi forniti, lavorando per così dire sui due versanti del rapporto e su due aree di indigenza: su quella di chi, per la mancanza si un lavoro remunerato non ce la fa a soddisfare i propri bisogni primari, e su quella di chi pur avendo un’occupazione non ha accesso a servizi che le permettano di conservarla o di utilizzarla al meglio (penso in particolare all’occupazione femminile dal problema della custodia e cura dei figli, o degli anziani).
I teorici della società post-industriale direbbero che una proposta di questo tipo permetterebbe, con un unico strumento, di far fronte contemporaneamente al soddisfacimento di bisogni post-materialistici, con una soluzione, appunto, modernissima. Inoltre, l’istituzione di una forma di reddito di “cittadinanza attiva” contrasterebbe il rischio e la dannazione del “tempo vuoto” – maledizione esistenziale che ben conoscono i cassaintegrati, costretti per legge all’inattività coatta – mettendo a valore quel bene comune per eccellenza che è la capacità relazionale, con un vantaggio davvero universalistico.
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