Welfare
Reddito di cittadinanza, progetti utili fermi al palo
La legge istitutiva prevede che i percettori del sostegno vengano impegnati in iniziative a favore della comunità. Ad oggi su 3 milioni di beneficiari sono stati attivati progetti per 5mila persone. In nessun caso è stato coinvolto il non profit
È corsa contro il tempo dei Comuni per l’attivazione dei Progetti utili alla collettività (Puc), le iniziative in favore della comunità come la pulizia dei parchi o la sorveglianza nei pressi delle scuole a cui sono tenuti i beneficiari del reddito di cittadinanza (circa 3 milioni di persone). A più di un anno dall’approvazione dei criteri per la realizzazione dei progetti (decreto ministeriale 22 ottobre 2019), solo un municipio su otto li ha attivati. Per l’esattezza 1.247 pari al 15,8% dei quasi 8mila campanili dello Stivale. In media, secondo i dati forniti a Vita dal ministero del Lavoro a metà dicembre scorso, ogni Comune ha messo in cantiere 3,3 progetti per un totale di 4.150 programmi. Solo 5.145 le persone coinvolte. Numeri esigui che aumentano gli interrogativi sulla misura voluta dai Cinquestelle. «Un risultato che non sorprende. Quando il Parlamento si accingeva a dare il via al reddito di cittadinanza inviai una lettera al ministro Luigi Di Maio in cui sottolineavo la necessità di una collaborazione e un confronto a livello nazionale con il Terzo settore. In realtà si è proceduto sollecitando solo i Comuni a trovare delle collaborazioni territoriali. Serve invece individuare delle cornici a livello centrale che consentano di creare dei contesti di relazioni anche sul territorio», spiega Stefano Tabò, presidente di Csvnet, la rete dei Centri di servizio per il volontariato.
Roma, Milano e pochi altri
L’intento dei progetti per la collettività è duplice. Offrire ai percettori del reddito di cittadinanza la possibilità: da un lato di potenziare le proprie capacità, dall’altro di “restituire” alla società l’aiuto ricevuto. Un risultato che i Comuni dovrebbero raggiungere con il coinvolgimento «auspicabile» del Terzo settore; questo l’aggettivo utilizzato dal decreto sui Puc. Peccato che le cose non stiano andando nella direzione auspicata. Vita ha provato a mettere le mani nella piattaforma Gepi, il portale con il catalogo dei Puc attivi (ricerca eseguita il 13 dicembre). Ebbene, dei venti capoluoghi di regione hanno caricato le schede dei progetti solo Roma e i suoi 15 Municipi (12 progetti), i 9 Municipi di Milano (9 progetti), Napoli (13), Pescara (1). Queste poche attività sono tutte a titolarità comunale (o di società partecipate). Nessuna risulta gestita in partnership col Terzo settore. Non è escluso che le grandi città, per recuperare tempo, abbiano preferito partire con progetti “fatti in casa” in attesa di raccogliere le proposte del non profit. Una galassia che tuttavia al momento sembra ancora tiepida verso l’iniziativa. Al 20 ottobre solo 30 organizzazioni del sociale avevano manifestato interesse ad attuare i Puc di Roma. Un atteggiamento del sociale che per Tabò non deve meravigliare. «Certo dipende dall’abitudine che hanno le organizzazioni a collaborare con la pubblica amministrazione. Il punto è che, pur nel rispetto della titolarità pubblica, deve esserci un approccio basato sulla pari dignità di relazione. Se il mondo del Terzo settore è guardato e utilizzato solo strumentalmente la diffidenza emerge».
Otto ore settimanali
La normativa, in particolare, prevede (a pena di decadenza dal sostegno) l’obbligo di svolgere le attività per i beneficiari del reddito di cittadinanza che hanno firmato il “Patto per il Lavoro” con i Centri per l’impiego o il “Patto per l’Inclusione Sociale” con i Comuni (a seconda che siano soggetti occupabili o meno). Non tutti i percettori sono tenuti, però. Sono esclusi o esonerati ad esempio gli over 65. L’impegno minimo è di 8 ore a settimana. Nel dettaglio, le Regioni più avanti sono Puglia (62,6% dei Comuni), Abruzzo (40,7%) e Lazio (35,2%). Bocce ferme in Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige (0%). «Si sta prefigurando lo scenario che avevamo anticipato due anni fa all’allora ministro Luigi Di Maio», sottolinea Luca Vecchi, sindaco di Reggio Emilia e delegato per il welfare dell’Anci. «È un problema di risorse umane e finanziarie. Risorse che i Comuni non hanno. Dietro ai Puc c’è un gran lavoro: programmazione, raccordi con i nuclei familiari, i Centri per l’impiego e il Terzo settore, predisposizione di bandi, stipula di convenzioni e assicurazioni, formazione, tutoraggio, acquisto dei dispositivi di protezione, predisposizione di schede e via di seguito. Un’insieme di attività che richiede personale e fondi, spesso sottratti ad altri compiti», rincara la dose Vecchi. Il ritardo nell’avvio dei progetti (su cui ha in fluito anche la sospensione da marzo a luglio, causa pandemia, delle condizionalità del reddito) priva gli stessi Comuni dell’opportunità di avvantaggiarsi del contributo “quasi” gratuito dei percettori in un momento segnato da riduzione delle entrate e aumento delle uscite e delle incombenze. Si pensi solo alla misurazione della temperatura per l’accesso ai siti pubblici. Un danno a cui si aggiunge la beffa. È il caso dei Comuni che hanno interrotto le attività di volontariato già iniziate. Il ministero del Lavoro ha comunicato infatti che i beneficiari che non percepiscono più il reddito (perché hanno superato la durata massima di 18 mesi, rinnovabili) non sono più coperti dall’assicurazione Inail. Un intoppo che ha indotto alcuni municipi a puntare solo sui percettori ancora in corso e a rimodulare il calendario dei Puc. Per non pochi, insomma, il reddito rischia di tradursi in una semplice erogazione monetaria senza la partecipazione a percorsi di cittadinanza attiva.
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