Famiglia
Reddito di cittadinanza e orario ridotto: la ricetta di Tridico, ministro-ombra dei 5Stelle
Luigi Di Maio l’ha ripetuto più volte: «se fossi premier, il reddito di cittadinanza sarebbe il primo atto». Una misura che i 5 Stelle hanno già messo nero su bianco nella passata legislatura, di cui pertanto si sa già molto. Il punto critico? La "trappola della povertà". Di Maio respinge: non è assistenzialismo. E Tridico, suo ministro in pectore, la mette fra i tre pilastri del nuovo welfare
Luigi Di Maio l’ha ripetuto più volte: se fossi premier, «il reddito di cittadinanza sarebbe sicuramente il primo atto che farei». Nei venti punti del programma elettorale del MoVimento 5 Stelle, il reddito di cittadinanza sta ben in alto, al punto tre, intitolato “Reddito di cittadinanza: rimettiamo l’Italia al lavoro”. Prevede lo stanziamento di «oltre 2 miliardi di euro per la riforma dei centri per l’Impiego, per fare incontrare davvero domanda e offerta di lavoro e garantire formazione continua a chi perde l’occupazione. Con la flex security le imprese sono più competitive e le persone escono dalla condizione di povertà». Una promessa antica – già nel 2013 il reddito di cittadinanza era al primo punto del programma – che ha certamente avuto il suo peso nel voto di domenica 4 marzo, in un Paese che ha visto crescere le percentuali di persone in povertà assoluta e in povertà relativa. Non per nulla nella notte dello spoglio elettorale, fra domenica e lunedì, le ricerche su Google per "reddito di cittadinanza" hanno visto un'impennata.
Pasquale Tridico, professore dell’Università Roma Tre indicato nei giorni scorsi da Di Maio come futuro ministro del Welfare (il primo a sinistra in abito blu, nella foto qui sotto), ha indicato così i tre pilastri per un nuovo welfare: il reddito di cittadinanza, «importante alla luce della robotizzazione e della disoccupazione, potrebbe essere usato come strumento per la formazione e come forma di investimento su se stessi»; il reddito minimo garantito condizionato alla povertà, «per coprire le fasce di persone in povertà non coperte dai contratti collettivi»; la riduzione dell’orario di lavoro, «imprescindibile in un Paese con un tasso di occupazione al 57%, come il nostro», una riduzione d’orario «progressiva, funzionale anche alla riduzione della disoccupazione» (l'intervento è tratto dal Convegno organizzato l'estate scorsa dal MoVimento 5 Stelle alla Camera (“Lo Stato innovatore”).
Del reddito di inclusione dei 5 stelle si sa già molto, anche in virtù del fatto che già nel 2013 la senatrice Nunzia Catalfo presentò un disegno di legge per l’introduzione del reddito di cittadinanza e del salario minimo, esaminata nei lavori parlamentari insieme alle altre sei proposte sul tema, sfociate poi nell’istituzione del reddito di inclusione, in vigore dal 1 gennaio 2018. I costi ad esempio: «Abbiamo fatto i calcoli, costerà il primo anno 14 miliardi di euro, con effetto moltiplicatore che produce nuova occupazione. E con altri 3 miliardi si mettono a posto i centri per l’impiego», disse in estate Di Maio. «Costa 17 miliardi di euro, di cui 14 servono proprio ad aiutare chi vive sotto la soglia di povertà a trovare un lavoro e non a prendere soldi senza fare nulla», ha scritto più di recente sul blog.
Si sa ad esempio che la proposta dei 5 stelle guarda non alla povertà assoluta come il Reddito di inclusione varato dal governo Gentiloni o come il recente reddito di dignità proposto in campagna elettorale da Berlusconi, ma alla povertà relativa, ovvero chi ha un reddito disponibile o una capacità di spesa inferiori ad una certa percentuale del valore medio o mediano nazionale. Per questo, la proposta del M5S coinvolgerebbe in Italia circa il 20% delle famiglie, un numero estremamente più elevato rispetto sia al ReI in vigore dal 1 gennaio 2018 sia al reddito di dignità ipotizzato dal centro destra. Secondo i calcoli di Eurostat, nel 2016 la soglia di povertà per una persona sola è di 812 euro al mese, che sale a 1.706 euro al mese per una coppia con due figli: sotto queste soglie nel 2016 stava il 20,6% dei residenti, circa 12,5 milioni di persone. Welforum alla vigilia del voto ha analizzato le proposte sul tema povertà (l’analisi è a firma di Massimo Baldini e Francesco Daveri): il reddito di cittadinanza costerebbe 28,7 miliardi, quasi il doppio rispetto alla cifra di cui parlano Di Maio e confermata dal presidente dell’Istat, più vicina a quella stimata dal presidente dell’Inps. Vero è che – sembra paradossale – in queste misure di welfare non si verifica mai che tutti gli aventi diritto richiedano il beneficio, per cui ipotizzando un tasso di take-up del 60-70%, la spesa tornerebbe a circa 20 miliardi.
Resta però un rischio, evidenziato da Welforum: che «sussidi così generosi possono provocare trappole della povertà. Alcune famiglie potrebbero trovare conveniente non cercare lavoro, o smettere di farlo, per poter beneficiare del sussidio. Questo rischio riguarda soprattutto il lavoro femminile o i lavori più faticosi o a basso salario. In nessun paese europeo vi sono sussidi universali contro la povertà così generosi come quelli impliciti in queste proposte, segno che almeno altrove il rischio di trappola della povertà (poveri che smettono di cercare lavoro perché “intrappolati” nel loro regime assistenziale da sussidi troppo generosi) viene tenuto in seria considerazione».
Un rischio su cui Di Maio è dovuto tornare più e più volte: «Prendiamo una persona, la inseriamo in un percorso di formazione di un anno per imparare un lavoro, e intanto presti 8 ore alla pubblica utilità, a disposizione del tuo Comune. Non è per niente una misura assistenzialista, quelli sono gli ammortizzatori sociali che danno soldi senza che il cittadino fa nulla». E ancora, più esplicito: «Il reddito di cittadinanza non darà soldi a chi vuol stare seduto sul divano: dovrà, per il breve periodo in cui avrà il contributo, formarsi e dare 8 ore di lavoro gratuito allo Stato. Dal secondo anno il reddito di cittadinanza inizia a scalare, perché la persona viene reinserita nel mondo del lavoro».
Foto Remo Casilli/Ag.Sintesi
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