Pietro Ferrari Bravo, direttore della Fondazione con il Sud, a titolo personale, sulle colonne di Vita, che ha sposato l’idea, ha lanciato la proposta di un reddito di cittadinanza attiva. In pratica si propone di subordinare l’erogazione di un possibile reddito di cittadinanza al fatto che il percipiente, oltre a trovarsi in condizione di bisogno, sia anche pronto a mettere a disposizione il suo tempo e le sue competenze per il perseguimento di finalità d’utilità sociale. Si tratta di un’ipotesi coerente con quanto auspicato dalla Fondazione Zancan nel suo rapporto sulla povertà, la quale ricordava come per contrastare questa piaga sociale sia fondamentale tutelare la dignità del povero, il quale deve essere chiamato a ricambiare in funzione delle sue possibilità, la disponibilità da parte della collettività a sostenerlo con contributi o altre forme di assistenza.
L’idea poi, come ha recentemente ribadito lo stesso Ferrari Bravo, potrebbe rivelarsi un ottimo investimento anche da un punto di vista finanziario. Trattandosi di risorse che verranno, quasi certamente, immediatamente spese nella loro totalità, si potrà assistere ad un effetto positivo per tutta l’economia, favorendo la ripresa del PIL e quindi il conseguente aumento delle stesse entrate fiscali secondo le note modalità che contraddistinguono i principi dell’economia keynesiana, principi che, nati per rispondere alle sfide della grande depressione, vengono naturalmente riscoperti in situazioni analoghe come l’attuale. Inoltre, il fatto che tali risorse debbano essere indirizzare verso la realizzazione di iniziative di utilità sociale, non potrà non generare importanti benefici per la collettività, anche in termini di risparmio per la spesa pubblica. Tante attività di prevenzione, che la pubblica amministrazione, schiacciata dalle emergenze, non è in grado di gestire, potrebbero invece venire realizzate dagli enti non profit, che sarebbero chiamati con tutta probabilità a gestire una parte non rilevante dei cittadini attivi, con le conseguenze positive che è facile immaginare sia per quel che riguarda la tutela del territorio, sia per quel che concerne il contrasto alle patologie sociali. In questi ambiti, prevenire è meglio che curare e anche molto meno costoso.
Infine il privato sociale, in un momento in cui deve far fronte al drastico ridimensionamento dei trasferimenti pubblici, potrebbe trovare nell’applicazione di questa misura la possibilità di avere importanti risorse umane a disposizione con cui svilupparsi. Fra l’altro, queste attività, se opportunamente seguite, potrebbero generare reddito in termini di donazioni e di ricavi dalla vendita di beni e servizi, fino a diventare sostenibili così che non dovrebbe essere impossibile trasformare alcune di queste posizioni in veri e propri lavori a tempo indeterminato.
Naturalmente non è tutto oro quello che luccica e, al di là dei costi che una simile scelta non potrebbe non comportare per le finanze pubbliche, sarebbe necessaria una più profonda riflessione su quelle che potrebbero essere i limiti e le controindicazioni di una simile misura. Solo per fare un unico esempio, sarebbe opportuno chiedersi quale sarebbe l’impatto di una così ampia disponibilità di forza lavoro gratis, per un settore che già tende a sottopagare i propri collaboratori. Nondimeno l’idea sembra interessante e meritevole di un approfondimento.
A questo punto esistono due strade:
1) abbandonare tutta la responsabilità della sua implementazione all’ente pubblico, limitandosi a qualche forma di dibattito giornalistico;
2) prendere la leadership, come direbbero gli americani, e iniziare un percorso operativo volto ad approfondirla, sperimentarla e promuoverla in modo organico e sistematico.
Questa seconda strada impone di destinare tempo e risorse ad approfondire il tema studiando esperienze simili in Italia e nel mondo; capire la differenze e le possibili integrazioni o incompatibilità con altre forme di intervento già esistenti: lavori socialmente utili, servizio civile, cassa integrazione; individuare gli strumenti giuridici, in particolare giuslavoristici, per implementare concretamente quest’idea; dar vita a singole sperimentazioni valutandole in modo sistematico e rigoroso; riflettere sulle misure di contorno necessarie per sfruttarne al massimo le potenzialità; sensibilizzare la comunità sul tema; informare e coinvolgere le istituzioni, così che possano essere presi i provvedimenti necessari alla sua attuazione ed eventualmente alla sua diffusione su tutto il territorio nazionale.
La filantropia istituzionale italiana ha, almeno in astratto, le risorse per fare tutto ciò. In un momento di grave crisi economica, in cui le fondazioni subiscono continue e forti pressioni da parte di chi vorrebbe utilizzare le loro risorse per cercare di tamponare la falle di uno stato sociale chiaramente in difficoltà, questa potrebbe rivelarsi un investimento che ha potenzialmente la possibilità di cambiare profondamente la politica sociale del nostro Paese, permettendo al settore di liberarsi da queste pressioni per affermare con forza la propria identità.
Naturalmente non si tratta di una scelta semplice e non è neppure detto che sia effettivamente il modo migliore per investire le proprie risorse, ma rappresenta un’opportunità per chi sta cercando di definire il proprio ruolo, non vuole essere considerato come un bancomat e si sta rendendo conto di come il finanziamento a singoli progetti sia in realtà sterile e, a volte, controproducente. Il gruppo di affinità sulla povertà e l’ormai prossima Assemblea di Assifero potranno essere l’occasione per porsi queste domande e per cercare di capire se la filantropia istituzionale italiana ha ormai le risorse umane e finanziarie per darsi obiettivi ambiziosi o se, al contrario, debba rinunciare a farsi carico di simile sfide per perseguire scopi più circoscritti, ma anche meno rischiosi.
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