Salute in carcere
Rebibbia, la prevenzione libera tutte
Un percorso di tutela della salute e di ascolto dei bisogni delle donne detenute. È il progetto "I Care", promosso da Cittadinanzattiva, che si è concluso nell’istituto di pena romano. Antonio Chiacchio, direttore Uoc Salute penitenziaria Rebibbia: «La criticità maggiore è quando dobbiamo inviare i nostri assistiti fuori dagli istituti per fare esami diagnostici, per la mancanza di agenti che possano scortarli. E mancano gli specialisti». Le testimonianze delle donne protagoniste del percorso
Si è concluso con un evento nel carcere femminile “Germana Stefanini” di Rebibbia il progetto “I care”, promosso da Cittadinanzattiva, terminato lo scorso dicembre dopo 12 mesi. Ha coinvolto 50 detenute e ha visto la collaborazione della Asl Roma 2, del garante regionale del Lazio e del garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, e di associazioni impegnate nella tutela di chi vive all’interno dei penitenziari.
“I Care” tutela il diritto delle detenute a diagnosi tempestive del carcinoma mammario, la neoplasia più diagnosticata nelle donne, attraverso azioni di empowerment e capacity building per la diffusione delle pratiche di prevenzione, contribuisce all’emersione dei bisogni di salute delle detenute attraverso la ricerca-azione e si impegna in un’azione di advocacy per l’istituzione della Carta dei diritti di salute delle detenute.
Nove “Raccomandazioni civiche”
«Questo progetto è parte di un percorso che speriamo abbia gettato un seme per altri progetti», ha detto Laura Liberto, coordinatrice nazionale Giustizia per i diritti di Cittadinanzattiva. «Con “I care” volevamo che le donne prendessero possesso del loro ruolo con la prevenzione e che si volessero bene». L’associazione ha presentato le “Raccomandazioni civiche per il diritto alla salute e alla prevenzione oncologica delle donne detenute”, un documento che spiega nove diritti fondamentali, riconosciuti dalla normativa nazionale e sovranazionale, e numerose raccomandazioni specifiche per garantirli: diritto all’informazione e alla consapevolezza; diritto all’accesso ai servizi sanitari; diritto alla tempestività della diagnosi e dell’assistenza; diritto alla continuità delle cure e del trattamento; diritto ad una corretta alimentazione; diritto all’attività fisica; diritto ad un ambiente salubre; diritto al supporto psicologico; diritto all’ascolto e alla partecipazione.
«La salubrità dell’ambiente in cui si vive è un diritto difficile da raggiungere nelle carceri, visto il sovraffollamento dei nostri istituti. La corretta alimentazione difficilmente si riesce a seguire, viste le grandi difficoltà con cui può entrare il cibo dall’esterno», ha detto Valentina Calderone, garante dei diritti dei detenuti del comune di Roma. «Spesso il carcere rappresenta il primo accesso delle persone al Servizio sanitario nazionale. La continuità delle cure, una volta terminata la pena, è difficile, anche l’origine delle persone incide. Dobbiamo capire insieme come colmare le disparità».
Il carcinoma mammario è un tumore che rappresenta circa un terzo delle malattie neoplastiche che colpiscono le donne: sono state 53.686 le nuove diagnosi nel 2024 (dati Rapporto Aiom, Associazione italiana oncologia medica).
Le detenute sono il 4,36% del totale
Su 61.861 persone detenute nei penitenziari italiani a fine 2024, 2.698 sono donne, ossia il 4,36%. Facendo riferimento alle carceri femminili (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Venezia Giudecca), il numero più alto di detenute, 378, si trova nel carcere “Germana Stefanini” di Rebibbia di Roma: qui il tasso di sovraffollamento è del 138%, superiore a quello generale delle carceri italiane già molto elevato, pari al 132,05% (rapporto tra detenuti presenti e posti regolarmente disponibili, dati del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, al 10 gennaio 2025).
Le testimonianze delle protagoniste del progetto
Le donne che hanno partecipato ad “I care” non sono state solo beneficiarie, ma vere protagoniste del progetto, sono state coinvolte direttamente e sono messaggere di prevenzione anche per altre persone. «Basta mezz’ora, il tempo di una visita, per poterci salvare la vita», ha detto Stefania durante l’incontro. Anche Valentina ha lanciato un messaggio (il più accorato di tutti) alla prevenzione, affidando le sue parole ad una lettera perché le lacrime non le permettevano di parlare: «Ci sono passata e ci sto passando ancora. Nell’ultimo periodo sono stata un mese e mezzo in ospedale. Dico a tutte: ragazze, non trascuriamoci!».
«Faccio prevenzione perché voglio morire al tempo suo»
Nel video realizzato nell’ambito di “I care” (il link è qui sotto), le recluse invitano le donne a prendersi cura di loro stesse. «Io faccio prevenzione perché non voglio morire prima, voglio morire al tempo suo», dice una delle donne che ha fatto parte del progetto. Un’altra afferma: «Prendersi cura del nostro corpo è molto importante perché è l’unico posto dove dobbiamo vivere». Il progetto ha visto anche la realizzazione di una guida multilingue sul tumore della mammella, disponibile in italiano, inglese, francese, spagnolo, arabo, rumeno.
Difficoltà per gli esami diagnostici fuori e mancanza di specialisti
«Per quanto riguarda il lavoro di noi medici in carcere, la criticità maggiore è quando dobbiamo inviare i nostri assistiti (che per sono pazienti esattamente come tutti quelli all’esterno) fuori dagli istituti, per fare esami diagnostici», ha detto a VITA Antonio Chiacchio, direttore Uoc Salute penitenziaria di Rebibbia. «Ad esempio, per far fare una tac occorre la scorta per andare in ospedale. Capita che questi esami saltino all’ultimo perché la priorità degli agenti di Polizia penitenziaria è data, in primis, ai processi e poi a tutto il resto. E questo è un grosso problema perché poi può passare un mese, o anche di più. Un altro problema con cui dobbiamo fare i conti», ha aggiunto Chiacchio, «è la carenza di specialisti all’interno delle carceri. Molti medici degli istituti penitenziari, con una grande formazione, sono precari».
Una Casa della salute per i detenuti di Rebibbia
«Con il presidente della regione Lazio Francesco Rocca stiamo lavorando per realizzare una Casa della salute all’interno del carcere di Rebibbia, dove tutti i detenuti potranno accedere. La regione ha stanziato due milioni di euro e speriamo sia pronta entro un anno», ha proseguito Chiacchio. «Avere nei luoghi di detenzione delle Case di comunità è importante, mi auguro che si possa andare avanti su questo», ha concluso Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva, che punta alla replicabilità del progetto: «Chiedo di essere capofila del percorso in altre case circondariali».
Nella foto di apertura, di Giampiero Corelli/Sintesi, un’immagine di repertorio della Casa circondariale femminile “Germana Stefanini” di Rebibbia.
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