Non profit

Re di cuori o di denari?

Nuovi filantropi Staccare pesanti assegni per grandi organizzazioni ormai è out. Per i giovani ricchi donare è un investimento

di Carlotta Jesi

Staccare un assegno a molti zeri e consegnarlo, in diretta televisiva, a qualche organizzazione umanitaria con budget e nome altisonante? Fuori moda. E donare a chi ha bisogno senza pensare ad alcun tornaconto? Una vera caduta di stile. Soprattutto se il proprio nome figura nella lista dei 100 uomini più ricchi d’America e si vive tra Palo Alto e Los Altos Hills, nel cuore della Silicon Valley. Dove gli affari viaggiano su autostrade informatiche e i ragazzini occhialuti della Microsoft descritti da Douglas Coupland in “Microservi” sono diventati giovanissimi milionari decisi a reinventare l’arte della generosità con idee e strumenti che hanno scatenato una vera e propria guerra ideologica negli Usa. A raccontarla è un lungo articolo pubblicato sul numero di settembre di Wired che riportiamo per intero nelle pagine seguenti con l’intento di fornire ai nostri lettori uno spunto di riflessione sui nuovi trend della filantropia. E anche una guida ragionata alla lettura, compilata insieme a diverse realtà del non profit italiano cui “Vita” è andata a chiedere se preferiscono schierarsi con i trentenni della Valley per cui fare filantropia significa impegnarsi nello sviluppo tecnologico, far fruttare i guadagni e investirli per sostenere piccoli imprenditori non profit, oppure con la vecchia guardia della beneficenza americana che dubita di poter risolvere problemi sociali con strumenti e tecniche mutuati dal mercato.
«Con gli innovatori», risponde Maurizio Carrara, presidente del Cesvi, che dei giovani filantropi hi-tech apprezza soprattutto l’idea di finanziare piccoli progetti piuttosto che pachidermiche charities piene di spese amministrative e burocratiche: «È di piccoli soggetti con grandi idee che è fatto il futuro del non profit e il presente dei Paesi in via di Sviluppo. Sono assolutamente d’accordo che sia su chi è disposto a rischiare in prima persona che bisogna investire». E anche sul farlo valutando attentamente costi e benefici dell’operazione, come fanno i sostenitori della venture philantropy, letteralmente filantropia ad alto rischio. «Perché delle tecniche che danno ottimi risultati nel business non dovrebbero essere usate nel non profit», aggiunge. «Soprattutto quando bisogna valutare progetti piccoli? Iniziative, per intenderci, che non producono mero assistenzialismo e cercano di coinvolgere attivamente i beneficiari nello sviluppo della società?». Gli fa eco Giovanni Acquati, che come fondatore di Mag2 e uno dei primi finanziatori italiani di progetti sociali dei nuovi filantropi è un collega a tutti gli effetti: «Il benessere si crea dando opportunità di rottura che valgono nel tempo e, dunque, avendo il coraggio di rischiare e investire su idee nuove che promettono bene più che continuando a finanziare organizzazioni cui mancano i soldi. Da discutere mi sembra piuttosto il sistema che porta alcuni individui a essere tanto ricchi da poter donare a chi non ha niente e sulla motivazione che muove i nuovi filantropi. Non sarà per caso un altro modo di conquistare il mercato? Non sarà il caso di chiederci come li hanno fatti questi soldi e se ogni mezzo è davvero lecito?».
Provocazioni cui la pragmatica America ha trovato una risposta oltre 100 anni fa, quando nel 1889 Andrew Carnegie, il padre spirituale di filantropi come Bill Gates e Andrew Soros, nel suo libro “The Gospel of Wealth- Il Vangelo della ricchezza”, scrisse che i ricchi hanno l’obbligo morale di mettere beni e capacità manageriali al servizio del bene comune. Una massima che molti oggi danno per scontata e che, senza scandalizzarsi per le grandi campagne pubblicitarie con cui Gates e compagni annunciano ogni nuova donazione, chiosano con un bel “perché da questa disponibilità dipende la loro credibilità, la stima che la società avrà in loro e non ultima la possibilità concreta di continuare a fare business”.
E l’Italia? Il nostro Terzo settore è pronto a chiudere un occhio sulla provenienza delle donazioni? A lasciare che i risultati dei suoi sforzi sociali vengano misurati con indici di mercato? No. O almeno non del tutto. Lo spiega bene il Segretario nazionale delle Acli Vito Intino: «Tutto ciò che serve a “emancipare” il non profit, a farne un soggetto del sistema economico a tutti gli effetti, è positivo. Ma per il resto concordo con le preoccupazioni della vecchia generazione di filantropi americani: quello dei nuovi milionari dell’hi-tech sarà davvero un interesse continuo e genuino? Quanto c’entra la possibilità di dedurre un po’ di ricchezza dalle tasse e, soprattutto, davvero lasceranno voce in capitolo al non profit». Se, insomma, i sostenitori della venture philantropy sapranno adattarsi alla mentalità non profit che guarda più all’uomo che al risultato. E le perplessità non finiscono qui. Soprattutto da parte delle grandi associazioni accusate dalla generazione dell’hi-tech di essersi trasformate nella bella copia degli organismi pubblici e di utilizzare buona parte dei finanziamenti ricevuti per coprire le spese di amministrazione più che i progetti di sviluppo. «Le dimensioni e lo staff crescono in maniera proporzionale ai bisogni sul territorio», spiega il vice segretario del Wwf italiano Alessandro Bardi. «Come altrimenti potremmo organizzare campagne di sensibilizzazione che servono a proteggere oltre 500 riserve naturali? E pensare che gli strumenti di valutazione e monitoraggio dei progetti pubblicizzati come grande novità nella Silicon Valley noi cerchiamo di usarli già da tempo. Certo non sono la regola, ma neppure una scoperta americana». Della stessa idea è il direttore dell’Unicef Roberto Salvan: «Certo grandi organismi come il nostro devono fare i conti con la burocrazia, ma è una diretta conseguenza della loro diffusione internazionale, del fatto che hanno rapporti con i governi e che, proprio per questo, cercano di creare un impatto più incisivo e continuato dei piccoli progetti sociali. A spaventarmi di questo nuovo fenomeno è la velocità con cui è nato, il mondo dell’hi-tech sarà in grado di produrre denaro anche in futuro o, passato di moda, si dimenticherà del non profit? Attenti ai fuochi di paglia». Insomma, nel complesso al non profit italiano i suggerimenti d’oltreoceano non dispiacciono. Ma per applicarli sarà necessaria qualche revisione. «Penso ai sistemi di valutazione di un progetto», conclude Maurizio Carrara, «che bisognerà usare non solo come analisti economici ma anche come antropologi e sociologi. Se, per esempio, da valutare è la riuscita di una iniziativa di alfabetizzazione in un villaggio, oltre alle persone cui si sarà insegnato a leggere e ai costi, magari controlliamo anche se in quel villaggio sia sorta una biblioteca». •

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