Cultura

Ragazzi io scrivo per vedervi vivere

Intervista a Eraldo Affinati. Fa lo scrittore. Ma ha una dimensione molto concreta del suo mestiere.

di Maurizio Regosa

Corpi ancora immaturi, guance quasi imberbi, l?anima già divisa fra il passato (quelle terre ormai a loro sconosciute da cui sono partiti) e il presente. Ora vivono a Roma, studiano e lavorano, non vedono l?ora di diventare grandi. Sono gli adolescenti arabi, afghani, africani, rumeni che popolano l?ultimo romanzo di Eraldo Affinati, La città dei ragazzi (appena uscito da Mondadori). Si sono conosciuti nella comunità che accoglie i giovani e dove l?autore insegna. Lì si sono osservati, misurati, annusati. Lì il grumo delle sofferenze è andato via via sciogliendosi fino a permettere il racconto. Che si concentra soprattutto sui giovani ma, al tempo stesso, spinge l?adulto a dirsi.
Vita: Leggendo, si ha l?impressione di trovarsi dinanzi a uno scrittore che non si risparmia, non ha paura di esporsi ?
Eraldo Affinati: Il libro è totalmente autobiografico. Non c?è nulla di inventato. Mi piace l?idea dell?esporsi: effettivamente è questo che vorrei fare. Perché? Questo è il problema vero. Per me la scrittura è l?ultimo anello di una lunga collana conoscitiva. Quando faccio un?esperienza e ne scrivo, capisco quello che ho fatto. Esporsi è una forma di conoscenza di me stesso e degli altri.
Vita: È un atteggiamento che precede la letteratura ?
Affinati: In questo caso l?intento era capire qual è la mia radice profonda. È come se, nel mio lavoro di docente, avessi scoperto mio padre. Insegnando agli orfani di oggi, è come se avessi capito finalmente chi era mio padre, morto da qualche anno: anche lui era un orfano esattamente come loro.
Vita: Il rapporto appunto fra esperienza e scrittura?
Affinati: Esatto. Con l?insegnamento ai minori non accompagnati, come si dice nel linguaggio burocratico, è come se risarcissi mio padre di quello che non ha avuto, se trovassi la soluzione che lui non era riuscito a trovare. A 12, 13 anni è rimasto orfano, senza nessuno che lo accudisse. Si è portato dentro nodi irrisolti che poi ha consegnato a me, a mio fratello. E la scrittura serve a parlare a nome di chi non può farlo.
Vita: Nel libro ci sono molti temi: il rapporto fra le culture, fra le religioni, fra le generazioni, l?esperienza di diventare adulti.
Affinati: Un?esperienza vissuta dai ragazzi ma anche dell?insegnante. Per i primi, diventare uomini significa trovare modelli di adulti credibili. Alla Città dei ragazzi ho constatato che quando questi adolescenti possono confrontarsi con adulti credibili, il loro percorso di maturazione è facilitato. Molto spesso hanno alle spalle esperienze traumatiche, famiglie smembrate, guerre, situazioni terribili che si portano dietro. Hanno bisogno di trovare una strada per diventare grandi nel confronto con un adulto che possa essere un modello appunto positivo. Dal punto di vista dell?adulto la responsabilità è altissima. Da insegnante capisci quanto è alta: puoi influenzare la percezione dell?adolescente che hai di fronte in modo quasi indelebile. Ed è per questo che devi giocare a carte scoperte, che non devi non barare ma mostrarti per quello che sei veramente. Non è una cosa a senso unico. Anche tu apprendi da loro, dall?energia vitalistica che loro hanno profonda. E puoi vedere il percorso che fanno in una lingua che non è la loro: l?italiano assume una funzione quasi terapeutica, come un apparecchio ortopedico che serve a ricomporre un osso spezzato. E questo è molto bello.
Vita: Per questo nel romanzo ci sono parecchi brani nel linguaggio poco ?ortodosso? dei ragazzi. Non è artificio letterario?
Affinati: Esatto. Non ho fatto un?operazione cosmetica o filologica, ho inserito questi lacerti proprio per mostrare la ricomposizione che stava avvenendo sotto i miei occhi. Hanno un modo di concepire la vita totalmente diverso dal nostro. Vengono da un mondo in cui non ci sono stati né Rivoluzione francese né Illuminismo, qui mettono alla prova la loro radice antica. Riescono a riannodare tutti i fili perché sono ancora giovani, hanno 14, 15, 18 anni e così riescono a rimettersi in moto anche se sono caduti a terra.
Vita: Talvolta la loro saggezza antica sembra molto più potente della nostra.
Affinati: Ho capito quello che noi abbiamo perduto. Anche noi eravamo come loro. In una pagina del libro un ragazzo me lo ricorda. Abbiamo perso il senso della gerarchia dei valori, dell?autorità, lo spessore dei rapporti umani. Un prezzo che paghiamo alla modernità.
Vita: Perché secondo lei la modernità ha prodotto una perdita della consistenza esistenziale?
Affinati: Sento l?intensità della domanda. Anch?io me la pongo. Ma è difficile dare una risposta. Capisco che la rivoluzione tecnologica, specialmente degli ultimi 20 anni, sta cambiando il modo di pensare. La gran massa di informazioni di cui oggi disponiamo, ad esempio, deve essere collocata in un sistema di valori, assimilata secondo ciò che è giusto e quello che non lo è. Ma questa massa di nuove esperienze e di informazioni non è stata ben metabolizzata. È come un?ebbrezza, la possibilità (teorica) di poter fare tutto? La rimozione dell?ostacolo, del dolore, della sofferenza è uno dei grandi problemi attuali. Credo che pagheremo questa rincorsa verso la leggerezza, la sanità, la bellezza, l?autonomia – sono questi i ?valori? oggi conclamati. La stiamo già pagando?
Vita: In un altro suo libro, Un teologo contro Hitler, si legge: «Non si diventa uomini completi da soli ma unicamente insieme agli altri». In questo romanzo è come se desse una concretezza esistenziale a questa frase…
Affinati: È vero. Infatti è un romanzo in cui ho cercato la coralità. C?è un io che parla, ma è polverizzato.
Vita: Non dice nemmeno il suo nome?
Affinati: Infatti. Il nome glielo danno i ragazzi, Raldo. È implicito nello sguardo dell?altro. Viene comunicato dagli altri che mi guardano. È appunto l?idea che i protagonisti sono gli altri. Che non può esserci un io senza gli altri. Questa coralità è presente anche nella ricerca delle radici: la storia di mio padre si ricollega a quelle dei ragazzi, anche loro orfani, e questa coralità ho cercato di realizzare anche a livello strutturale, con le tantissime storie che si intrecciano le une con le altre.
Vita: All?inizio sembrano episodi. Poi si capisce che la frammentazione è, invece, struttura.
Affinati: È importante che questi frammenti si ricompongano. Fanno parte di quei tasselli spezzati. Ho cercato una struttura che potesse essere rappresentativa di questi ragazzi, la cui esperienza è appunto frammentata e che continuamente sono tesi alla ricomposizione della struttura unitaria. Ho voluto provare a mettere in opera questo desiderio di ricomposizione, di sanità, di superamento della crisi e del trauma.
Vita: In La città dei ragazzi scrive: «Ogni uomo deve rispondere innanzitutto al padre e alla madre, sciogliendo i nodi che loro hanno tenuto legati. In particolare, dovrebbe farlo uno scrittore». Perché in particolare lo scrittore?
Affinati: Non è una regola. È una mia tesi: secondo me, lo scrittore dovrebbe realizzare sulla pagina il massimo dell?autenticità. Non dovrebbe concedersi il lusso di trascinare sulla pagina delle zone d?ombra. Come dicevo prima, concepisco la scrittura come uno strumento di conoscenza. Per me la letteratura è lo scioglimento dei nodi, non l?illustrazione di grovigli, come è capitato in molta letteratura del ?900. Questo è il compito etico dello scrittore.
Vita: Da qui la densità dello stile?
Affinati: Mi fa piacere che lo noti. È un lavoro enorme: l?attenzione analitica sulla pagina mi costa molta fatica. Ed è vero che, in particolare in questo libro, ho cercato la comunicazione diretta tentando di non perdere in densità e intensità.
Vita: In alcuni passaggi ci sono riferimenti molto toccanti alla religione, vista come un fatto molto ?prossimo??
Affinati: C?è una matrice evangelica in questa posizione di ricerca di una fraternità umana. Una posizione alla Bonhoeffer, un cristianesimo se vogliamo antropologico che non innalza steccati e divisioni. Non a caso vado in Marocco in un mondo totalmente musulmano. La bellezza che ho sentito nelle loro preghiere, l?intensità spirituale che ho sentito nei loro padri e nelle famiglie, mi hanno fatto pensare ai pregiudizi che a volte abbiamo e che sono strumentali. Svaniscono quando sei di fronte a loro. Anche loro cercano la verità, la fraternità, l?uguaglianza, la solidarietà. E questo ci accomuna. In questo senso non volevo essere rituale, ma piuttosto propormi per come sono. Ho visto che ha funzionato in Marocco, come funziona qui con gli allievi. Alla Città dei ragazzi sono quasi tutti musulmani. C?è una chiesa, ma anche una moschea. E questo modello di convivenza è molto bello.
Vita: La Città dei ragazzi è un personaggio. Non è solo un luogo?
Affinati: È una dimensione dello spirito, oltre che un fondale realissimo. La Città dei ragazzi è tutte e due le cose, in fondo. Monsignor Carroll-Abbing pensò, nel 1945, che un ragazzo dovesse acquisire senso di responsabilità. Da qui l?idea dell?autogoverno, l?assemblea, la banca, la moneta? le riunioni. È un percorso di autoresponsabilizzazione, un?idea pedagogica che trasforma questi ragazzi.
Vita: In questo senso dà il titolo al libro.
Affinati: Sì. Non solo come luogo, ma come dimensione spirituale.
Vita: E suoi studenti come hanno accolto il romanzo?
Affinati: È ancora presto per dirlo. È appena uscito. Ovviamente sono tutti molto curiosi e attenti. Stanno cominciando a leggerlo adesso. Certo per comprendere la loro reazione, bisogna capire qual è la loro percezione di un libro. Lo vedono in modo diverso da noi: per loro è una sorta di megafono che può far conoscere all?esterno la loro condizione.
Vita: Cosa può dire questo romanzo ai ragazzi italiani?
Affinati: Per un giovane sensibile potrebbe rappresentare un bel confronto, gli farebbe bene conoscere un?esperienza come quella che vivono i suoi coetanei alla Città dei ragazzi. In qualche misura capirebbe il privilegio che ha avuto: i minori non accompagnati non hanno avuto famiglia, focolare domestico, istruzione? Un ragazzo italiano non si rende conto di quello che ha.
Vita: Ha anche talvolta dei genitori che non vogliono essere genitori, che cercano di essere come i loro figli?
Affinati: Certo, padri che cercano di rincorrere i ragazzi verso il desiderio, inteso in senso ampio. Ma questa rincorsa verso il desiderio è negativa. A un certo punto devi scegliere. Se un giovane avverte che suo padre non vuole operare delle scelte, si trova di fronte a un esempio molto negativo. Scegliere, fra le tante strade possibili, è necessario.
Vita: Torniamo agli adulti credibili?
Affinati: Sì. Un adulto che ha sacrificato qualcosa di se stesso e ha scelto perché ha ritenuto che quella era la cosa migliore da fare lasciando perdere le altre: questo significa essere credibili. Scegliere significa rinunciare.
Vita: Nel suo romanzo, la cultura è intesa come strumento di relazione e non come affermazione di identità.
Affinati: Certo. È il tema di cui si diceva prima, del volersi esporre. Se interpreti la cultura come un forchino identitario, lo fai per conservare una posizione immacolata. Ma chi vive sbaglia, si mette a rischio, si mette in relazione. E questa posizione di apertura è una cosa di cui i giovani si rendono conto. Tutti quello che insegnano lo sanno: un ragazzo scappa di fronte all?assenza di disponibilità.
Vita: Qual è secondo lei l?insegnamento più prezioso di don Milani, oggi citato anche a sproposito?
Affinati: La cosa che mi piace è quel suo essere capace di sporcarsi le mani, mettersi sul banco accanto ai ragazzi, stare in trincea accanto a loro. Per me ha il significato di vivere le storie, non limitandosi a rappresentarle. Il viaggio in Marocco, per esempio, mi ha fatto percorrere la strada che i ragazzi avevano fatto.

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