Welfare

Ragazzi criminali? c’è una terza via

Si chiama mediazione penale ed è un istituto di giustizia minorile. Un criminologo spiega cosa significa far dialogare un ragazzo con la persona cui ha fatto del male.

di Redazione

A un osservatore qualsiasi sembrerà una barzelletta poco originale che Marco chieda scusa a Luca, quindicenne come lui, per averlo picchiato a sangue tre mesi prima. E suonerà come una finzione di buonismo che Luca alla fine sorrida tendendogli la mano e ricordando a Marco, solo con lo sguardo, la vecchia amicizia che li ha visti crescere fin qui. Ma i due ragazzi non stanno giocando: sono all’ultimo atto di un percorso che, per la prima volta, li ha fatti pensare a quanto fa male vivere in periferia e finire nemici per una ragazza, uno spinello, un’autoradio rubata. Tre mesi di colloqui con esperti, poi loro due soli, a caccia di parole per spiegare una rabbia che ci mette anni a nascere e qualche minuto a esplodere. Si chiama mediazione penale, questo incontro guidato fra giovani autori e vittime di reati, per creare comunicazione là dove regna solo un dolore a due facce. E magari aggiustare una personalità cattiva, o vuota. Materia, questa, che vede Austria e Germania all’avanguardia e l’Italia un po’ indietro, ancora senza una legge e solo con tre centri – a Milano, Torino e Bari – attrezzati per affiancare i tribunali minorili. «Eppure è uno dei metodi migliori per promuovere forme di giustizia riparativa»: si avverte la passione, si leggono anni di battaglie culturali sul volto di Adolfo Ceretti, 45 anni, criminologo all’Università di Milano-Bicocca e dal ‘92 consulente del tribunale dei minori, oltre che tra i fondatori del centro di Milano, il Sead, che dal maggio ‘98 ha effettuato 150 mediazioni. Ci incontriamo in una cornice che induce per forza a temi seri: il carcere di Opera, entrambi spettatori di Brecht messo in scena dai detenuti sotto la guida di Teresa Pomodoro, alle cui iniziative culturali Ceretti collabora da tempo. Vita:Professore, parliamo di mediazione penale con i minorenni: cosa significa, in pratica? Adolfo Ceretti:In qualsiasi fase del processo o delle indagini preliminari, il tribunale ci segnala un caso. La condizione è che il ragazzo abbia confessato o sia stato colto in flagrante, e ormai i giudici hanno l’esperienza per capire quando è utile questo percorso. In quel momento il processo è sospeso. Noi convochiamo le parti, cioè l’autore di reato coi genitori e il legale, e la vittima, da sola se maggiorenne, o con l’avvocato. Dopo una serie di colloqui con assistenti sociali ed esperti, stabiliamo se la mediazione si può fare. Gratis, naturalmente. Vita:Qual è lo scopo di questo incontro fra vittima e carnefice? E per quali reati ha più senso il faccia a faccia? Ceretti:Non ci interessa la banale rappacificazione, bensì costruire uno spazio dove la vittima possa raccontare la sofferenza, l’angoscia e la rabbia scatenate dal reato. E dove l’autore parli di sé, spiegando cosa lo ha spinto al crimine. Tirando fuori i propri vissuti interiori, entrambi recuperano dignità. Ma la mediazione non è prevista per l’omicidio né per i reati “senza vittime”, come lo spaccio di droga, ad esempio. In genere si tratta di lesioni personali – da lievi a gravissime -, violenza sessuale, estorsione, incendio, ma per noi sono più importanti le situazioni dove c’è una dinamica relazionale forte. Perché anche se il conflitto sembra coinvolgere solo due persone, spesso scopriamo che intorno c’è tutto un ambiente, magari un caseggiato popolare, una periferia, dove i rapporti creano una tensione che, se non sviscerata, può sfociare in altri reati. Vita:E qual è la riparazione finale? Ceretti:Può essere simbolica: una stretta di mano, una cena, il farsi rivedere insieme se si tratta di due amici. Oppure materiale, quasi sempre lavori di utilità sociale. Vita:La mediazione ha successo? E, soprattutto, in che modo influisce sulla sentenza del giudice? Ceretti:Nel 63% dei casi vittime e autori accettano di venire da noi. C’è poi chi preferisce comunicare per lettera, non ce la fa a reggere lo sguardo dell’altro. Ma quando il percorso si fa, la mediazione ha esito positivo in più del 90% dei casi. È tutto riservato, neppure il giudice saprà perché una mediazione è finita male. Quando gli consegniamo la nostra breve relazione, infatti, lui ne fa l’uso che crede. Non è vincolante, anche se i giudici minorili quasi sempre ne tengono conto. Vita:Da teorico della giustizia riparativa, cos’ha pensato delle polemiche di qualche settimana fa, in seguito al delitto di Aprilia, sulla “morbidezza” del nostro sistema penale minorile? Ceretti:Che abbassare i limiti di imputabilità per i minori è un’idea stupida. Abbiamo una procedura processuale ottima, non so quanti Paesi al mondo ci eguagliano. Perché mettiamo al centro la personalità del minore, l’importanza di non interrompere percorsi educativi ma promuoverli, il fatto che il ragazzo debba essere sempre informato. Prima del Dpr 448 dell’88, il minore era una sorta di accidente nel processo, che usava linguaggi e riti da adulti. Oggi, invece, i primi diritti che ha sono l’ascolto e la comunicazione. E poi il giudice dispone di strumenti flessibili, può decidere tra il carcere e altre misure. E i numeri parlano chiaro: il tribunale dei minori di Milano apre 4 mila fascicoli l’anno. In carcere ci saranno 20 ragazzi. Vita:All’epoca del massacro di Novi Ligure si è parlato molto di “messa alla prova” come misura alternativa al carcere. Ce la spiega meglio di quanto abbiano fatto i giornali? Ceretti:È ammessa per qualsiasi reato, anche l’omicidio. Consiste nell’affidare il minore ai servizi sociali per un periodo che va dai 4 mesi ai tre anni, sospendendo il processo e proponendo progetti che noi amiamo chiamare “per la nascita sociale”. Dall’inserimento in comunità a corsi di studio, dai lavori utili a semplici cicli di colloqui con uno psicologo, soggiornando a casa propria. Lo scopo è aiutare il ragazzo a pensare che esiste un futuro: il reato, infatti, non nasce da una progettualità, ed è proprio questa che la messa alla prova va a costruire. Il minore viene guidato a leggersi come soggetto, a capire il peso delle azioni. Al termine, il giudice valuta la sua personalità, e in genere l’esito è positivo. Nel senso che il ragazzo recepisce certi concetti, il rispetto delle regole, quindi è libero. Vita:E all’opinione pubblica che ha sete di vendetta e invoca sempre il carcere, come si fa a spiegare che esistono altri percorsi? Ceretti:Dicendo chiaramente che la criminalità non ha nulla a che vedere con la paura della criminalità. Per questo è inutile rincorrere fasulli sentimenti di sicurezza. E purtroppo quei pochi ragazzi cui tocca la galera servono proprio a contenere la folla, che altrimenti chiederebbe la forca. Info: Centro Sead 02/86453551


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA