Minori

Ragazze, fidatevi, non è tutto finito (neanche dopo uno stupro)

È la sfida più complessa per i familiari e gli operatori che accompagnano le ragazze che hanno subito uno stupro: portarle a fidarsi di nuovo degli altri, riaccendere la speranza, credere che possa esistere ancora un futuro buono. È un percorso psicologico, ma anche educativo: quello che si fa nelle comunità. Un figlio che subisce violenza è un trauma che anche mamma e papà devono elaborare: per questo a volte serve un tempo di distanza. In dialogo con Marianna Giordano, presidente del Cismai

di Sara De Carli

Qualche giorno fa Francesca, che è il nome di fantasia scelto della 19enne violentata dal branco a Palermo, è stata trasferita in una comunità protetta. «Non ho più voglia di lottare. Se riesco a farla finita porterò tutti nel mio cuore» aveva scritto poche ore prima sul suo profilo Instagram. Una delle due cuginette di 13anni violentate a Caivano, anche qui con una violenza di gruppo, ora è in una comunità. Ed è ancora un’educatrice di cuna comunità la prima a raccogliere le confidenze della ragazza che a Milano ha trovato la forza di raccontare la sua esperienza e di denunciare anche lei lo stupro di gruppo subito nel 2022.

Qual è il percorso che fa una ragazza che ha subito violenza, quando entra in comunità? Perché questa tappa – non obbligatoria e non necessaria per tutte – può essere così importante per tornare ad immaginare un “dopo”? E quali sono, al contrario, le difficoltà che educatori e operatori si trovano ad affrontare nel delicato compito di accompagnare queste ragazze a costruirsi un nuovo futuro? Marianna Giordano è un’assistente sociale che opera in Campania: lavora molto con minorenni che hanno subito matrattamenti e abusi in famiglia o da parte di estranei ed è da qualche mese la nuova presidente del Coordinamento italiano servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia-Cismai.

Per raccontare il suo lavoro («anzi, il lavoro della rete, diciamolo subito che in questi casi è assolutamente necessario che ci sia una pluralità di sguardi, una rete», afferma decisa), Giordano sceglie di raccontare una storia. La storia di Francesca – sceglie anche lei questo nome di fantasia – è accaduta qualche anno fa in Campania. «Una storia simile a tante altre e simile anche a quelle di cui in questi giorni stiamo tanto parlando. Con il gruppo e i video», risponde Giordano.

Chi è Francesca? Qual è la sua storia?

È una ragazzina di 14 anni che venne violentata sulla spiaggia da un ragazzino che le piaceva e dai suoi amici. È stata la sua amica del cuore a raccontare alla mamma di Francesca l’episodio, perché lei si vergognava troppo. La madre sporge denuncia. Da quel momento il rapporto tra mamma e figlia diventa molto difficile, probabilmente era già complicato prima. La mamma a volte rinfaccia Francesca di aver dato corda al ragazzino, di essersi appartata con lui. Francesca rimprovera la mamma di giudicarla, di non capire qual è per lei l’importanza del gruppo e del sentirsi accettata, che sì lei si era appartata con quel ragazzo ma non immaginava come potesse andare le cose. Con la denuncia si era attivato a favore vittima l’ufficio per i minorenni del ministero della Giustizia e il servizio sociale territoriale: viene suggerito un percorso terapeutico psicologico, coinvolgendo i genitori, che sono separati. Quando le assistenti sociali incontrano Francesca e la sua famiglia, percepiscono che la famiglia non è per lei un ambiente emotivamente sicuro e decidono l’invio in una comunità educativa. Per Francesca, così che possa prendersi cura di sé ma anche per la mamma, perché possa riprendersi da quello che anche per lei è un trauma: non scordiamo che l’abuso subito da una figlia mette in discussione profondamente anche i genitori, è un trauma anche per loro, sia perché magari si riaprono dei vissuti sia perché sollecita reazioni collegate alla vergogna, all’impotenza, alla propria inadeguatezza come genitore. Qui c’era anche un padre che rinfacciava alla moglie di non essere stata in stata in grado di educare e proteggere sua figlia. Ad aggravare la situazione c’era il fatto che uno dei ragazzi del gruppo aveva ripreso la violenza e quelle immagini giravano nelle chat della comitiva, corredate da commenti dal tono “se l’è cercata, prima c’è stata e ora fa santerellina”.

L’abuso subito da una figlia mette in discussione profondamente anche i genitori. Sollecita reazioni collegate alla vergogna, all’impotenza, all’inadeguatezza. Spesso c’è un padre che rinfaccia alla moglie di non essere stata in stata in grado di educare e proteggere sua figlia

— Marianna Giordano, assistente sociale, presidente Cismai

Francesca come ha vissuto l’inserimento in comunità?

È stata una svolta. Si è creata una intercapedine nelle relazioni: quella distanza, seppure parziale e temporanea, ha permesso a tutte le parti coinvolte di lavorare sulle relazioni, tant’è che nemmeno un anno dopo Francesca è rientrata a casa. Il tribunale aveva disposto per entrambi i genitori una valutazione sul recupero della responsabilità genitoriale ed entrambi hanno fatto un percorso, terminato con una valutazione positiva. Tutti si sono riposizionati e a quel punto si è riaccesa una relazione “nutriente”, protettiva e collaborativa. Francesca non voleva essere separata dalla madre, ne aveva paura ed era molto distante nei confronti degli operatori. Lei proveniva da un ambiente medio, non di degrado, ed era figlia unica: l’impatto con la comunità, con le sue regole, con uno stile di vita in cui lei non era la “regina della casa” è stato duro. Però ha incontrato operatori in grado di accoglierla, sostenerla, ridefinirla. Anche l’incontro con le altre ragazze accolte è stato positivo: le ha fatto vedere la vita in modi diversi. Si è stupita che ci potesse essere tanta attenzione nei suoi confronti. Vedere l’impegno della madre e del padre, che si sono messi in gioco, è stato importante. Nel percorso psicologico, lei rielabora l’esperienza traumatica subita ma fa anche una rivisitazione della sua vita, soprattutto di quel suo bisogno continuo di cercare attenzioni e conferme. Riesce ad uscire dalla stigmatizzazione del “se l’è cercata” e anche a posizionarsi diversamente nel gruppo amici, senza dover cercare necessariamente il consenso di tutti. Per lei è stato difficile vedere che la comunità degli amici fosse “indecisa” sul “con chi schierarsi”, se con lei o con gli autori della violenza… Grazie al supporto educativo e terapeutico Francesca è riuscita a fare delle scelte: chi di quegli amici frequentare e con chi tagliare i ponti, ha chiesto di cambiare scuola, ha voluto una vita sociale più organizzata, per esempio in comunità ha scoperto la bellezza e l’importanza dello sport e di quanto sia prezioso stare in un gruppo di coetanei in quel contesto. Prima tutto questo non le apparteneva. Francesca ha conservato il legame con la responsabile della comunità, che è stata capace di un’accoglienza regolativa: anche successivamente, nei momenti di conflitto con la madre, si è rivolta a lei per un aiuto.

Nel percorso psicologico, Francesca rielabora l’esperienza traumatica subita ma fa anche una rivisitazione della sua vita, soprattutto di quel suo bisogno continuo di cercare attenzioni e conferme. Ha cambiato scuola, ha tagliato i ponti con alcuni amici

— Marianna Giordano

Quando una ragazzina che ha subito violenza viene affidata a una comunità?

La comunità è una risorsa quando il contesto della famiglia non è ritenuto (da una valutazione o successiva) sufficientemente protettiva sul piano fisico o su quello emotivo. Se la famiglia non è in grado di interrompere l’agito del maltrattamento (si pensi ai casi in cui il maltrattante è il nonno o lo zio), o di proteggere rispetto alle pressioni o quanto la famiglia stessa diventa colpevolizzante. Si fa una valutazione rispetto alla autentica capacità di protezione fisica ed emotiva che viene messa in atto: non è un giudizio morale. D’altra parte sapere che un proprio figlio è stato abusato è traumatico anche per i genitori. Se l’incredulità o la paura delle minacce diventano un ostacolo alla protezione del minore, si rende urgente un provvedimento di allontanamento. In altri casi invece si sostengono i genitori, aiutandoli a prendere posizione. È più facile proteggere una bambina piccola che un’adolescente, perché è difficile dinanzi a una bambina fare ragionamenti nella linea del “se l’é cercata”. Per gli adolescenti è meno semplice, perché da parte di un genitore c’è spesso il “te l’avevo detto, ti avevo detto di non uscire, che dovevi tornare prima, che non dovevi stare sempre con quel telefono in mano…”. Un altro aspetto chiaramente protettivo è permettere alle figlie di accedere ai percorsi di aiuto piscologico: i genitori non sempre lo accettano. Se dicono “se lo dimenticherà da sola”, se ai servizi dicono “ci state perseguitando” sono segni di non protettività emotiva.

Un aspetto chiaramente protettivo è permettere alle figlie di accedere ai percorsi di aiuto piscologico: i genitori non sempre lo accettano. Se dicono “se lo dimenticherà da sola”, se ai servizi rinfacciano un “ci state perseguitando” sono segni di non protettività emotiva.

— Marianna Giordano

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Quanto è grande tra le ragazze abusate la sensazione che tutto sia finito con quella violenza e che non ci possa essere per loro alcun futuro?

Una violenza è un trauma anche sul piano identitario, non solo fisico ed emotivo. È anche un attacco al legame di fiducia nei confronti dell’altro, soprattutto quando le violenze avvengono da parte di persone conosciute. Le relazioni di prossimità allora sono un potente elemento di cura, da parte dei famigliari ma anche dagli operatori, assistente sociale, educatore, responsabile della comunità, psicoterapeuta. Judith Herman nel suo Guarire dal trauma dice esattamente questo, che una sfida cruciale per i familiari e i professionisti che lavorano con una persona abusata o maltrattata è far sentire di essere dalla parte della vittima, riuscire a riempire la sua solitudine nel sentire che nessuno può arrivare a toccare il suo dolore e restituire la speranza che c’è ancora una vita possibile, fondata su legami di amore, rispetto, fiducia. Chiunque si trovi accanto a una vittima, deve cercare di reinfondere questo senso di speranza. Non negare che ci sia il male, ma ribadire che c’è anche la speranza. Per questo è importante anche l’incontro con altre vittime, si creano alleanze, ci si rende conto che reagire è possibile, che la vita non è finita quella sera.  

Dal punto di vista professionale, quali attenzioni o formazione specifica è necessario avere?

Le minorenni vittime di violenza, quando vengono inviate in comunità, sono inserite in una “normale” comunità educativa. È importante quindi che le comunità, attraverso il lavoro degli educatori, abbiamo una valenza tutelare. Certamente c’è l’aspetto educativo del traghettare verso un “dopo”, ma prima deve esserci anche un compito di protezione, che le comunità educative devono sviluppare. Le comunità che accolgono minori vittime di traumi e abusi devono avere un’esperienza, una formazione e una supervisione. Per esempio le ragazze che hanno questa esperienza mettono in atto spesso comportamenti aggressivi o di non rispetto delle regole, che appaiono come comportamenti di sfida, per cui spesso queste ragazze vengoni definite come “ingestibili”.  Invece è una reazione dinanzi al fatto che “le regole”, con loro, non siano state rispettate. Bisogna avere una conoscenza del trauma e dei meccanismi che genera.

Esistono delle linee guida o di indirizzo o comunque documenti per l’accoglienza in comunità di ragazzine vittime di abuso o maltrattamento?

Nel 2017 il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha elaborato le “Linee di indirizzo per accoglienza dei minorenni nei servizi residenziali“, che sono molto importanti ma che non sono state ancora recepite da tutte le regioni. Lì però non c’è un’attenzione specifica. Come Cismai nel 2001 abbiamo stilato un documento, “Requisiti minimi centri residenziali che accolgono minori vittime di maltrattamento e abuso”, che è stato da poco rivisto: la nuova versione verrà pubblicata a ottobre. Una novità è certamente il richiamo su cui la Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza insiste molto al fatto che bambini e adolescenti abbiano la possibilità di esprimere la loro voce, per evitare forme di maltrattamento istituzionale per cui degli adulti interpretano quello che loro pensano sia il bene per il minore.

Foto di Pixabay


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