Non profit

Raffaelli: «Somalia addio»

Intervista all'inviato speciale del governo nel paese africano, che sarà assegnato ad altro incarico. E, da quanto emerge da fonti diplomatiche, non sarà sostituito.

di Emanuela Citterio

Mario Raffaelli negli ultimi otto anni è stato inviato speciale del governo italiano per il Paese del Corno D’Africa. Ritenuto il più autorevole e competente mediatore europeo fra le parti in conflitto, in questi giorni sta smantellando il suo ufficio di Nairobi da dove ha seguito le trattative per aiutare la Somalia a uscire dall’anarchia istituzionale in cui è precipitata dal ’91. Assegnato ad altro incarico, come aveva anticipato nel sul blog su Vita.it Giulio Albanese

«Non è una decisione di questi giorni», precisa Raffaelli, «lo scorso agosto il governo italiano mi ha incaricato di coordinare un gruppo di esperti per preparare un rapporto in vista del prossimo G8 italiano. Si tratta di un rapporto sul piano d’azione approvato nel 2004 su come rafforzare le operazioni di peacekeeping in tutto il mondo e in particolare in Africa entro il 2010. A dicembre la presidenza del G8 è passata all’Italia e quindi l’incarico è diventato effettivo». Il fatto che Raffaelli non si occuperà più di Somalia non significa solo l’uscita di scena di un diplomatico competente. L’inviato italiano è depositario di un patrimonio di conoscenze e relazioni sul processo di pace in Somalia. Difficile capire ora che fine farà questo patrimonio, che ha dato corpo all’azione diplomatica del nostro Paese nell’ex colonia italiana. Raffaelli se ne va in un momento critico (il 29 dicembre si è dimesso il presidente del governo di transizione somalo Abdullahi Yusuf Ahmed). E all’orizzonte non c’è il nome di nessun sostituto. Il trasferimento di Raffaelli significa un disinvestimento da parte dell’Italia nel Paese più tribolato del Corno D’Africa? «E’ una domanda da rivolgere ad altri, non a me» è la prudente risposta dell’ormai ex delegato italiano. «Quello che è certo è che in Somalia si sono perse molte occasioni. La responsabilità più grave degli attori in campo e anche di alcuni mediatori è di non avere agito con tempestività per far applicare l’accordo di Gibuti tra il governo di transizione somalo e gli islamici moderati di Shek Sharif Shek Ahmed, riuniti nell’Alleanza per la Re-Liberazione della Somalia. Questo accordo, raggiunto a giugno dello scorso anno, poteva essere finalmente un punto di partenza per dare stabilità al processo di pace in Somalia, ma ci sono stati continui rinvii». In questi giorni si parla della Somalia come dell’ennesimo fallimento delle Nazioni Unite. A 15 giorni dall’accordo di Gibuti si sarebbero dovuti costituire due comitati, entrambi presieduti dall’Onu, incaricati di garantire il rispetto dei punti dell’accordo. «I comitati si sono fatti solo in agosto, non si sono mai riuniti in Somalia, e solo negli ultimi giorni si è deciso di creare una green zone a Mogadiscio per permettere a questi organismi di operare. Solo che ora le condizioni sono cambiate, le due parti dell’accordo di Gibuti si sono indebolite. Si è perso del tempo prezioso».


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