Sostenibilità
Racconti di (stra)ordinarria follia
Roma e Trieste. Entrata e uscita dal manicomio. Due viaggi emozionanti
Un percorso sensoriale alla scoperta della vita dentro il padiglione psichiatrico della capitale. Voci, immagini, rumori, storie che ribaltano le percezioni comuni. Le “macchine delle meraviglie” di Studio Azzurro per impazzire, per qualche ora. E finalmente capire meglio I sensi prima di tutto. E l’immaginazione. Che è poi quella che ci fa pre-giudicare le situazioni. E ci spinge a catalogare l’ignoto sulla base del noto, il “diverso” in virtù del “normale”, il “non sano” sulla base di una “salute”. Potremmo nominarla “percezione che rassicura”. Proprio quella contro cui ci si scontra entrando nel Museo laboratorio della mente, creato da Studio Azzurro nel padiglione 6 dell’ex manicomio provinciale di Roma (attivo fino al 1999, anno in cui sono “usciti” gli ultimi pazienti). Nel padiglione, liberato dai suoi 60, dolorosi, letti, nel 2008 è stato allestito un percorso che comincia con un doppio paradosso – «Entrare fuori uscire dentro» – che significa anche lo sforzo richiesto ai visitatori: superare le consuetudini per arrivare al nocciolo. Non a caso in questo museo non si entra soli. Si va accompagnati. Come in tutti i cammini impegnativi.
Dopo la prima sezione che decostruisce le consuetudini – ne avrete già compreso il titolo: Modi del sentire – ci si addentra nel padiglione. In senso fisico e metaforico: il visitatore si sottopone al rito della schedatura fotografica, che per lui è volontario, e si confronta con i ritratti che lo psichiatra Romolo Righetti faceva, negli anni 30, ai suoi pazienti. L’arte che va oltre la scienza e scopre l’originalità di ciascuno sguardo individuale. Dopo i ritratti, le Dimore del corpo. Ancora una volta la tecnologia si fa arte. Appoggi i gomiti su un tavolo, la testa tra le mani, e le ossa si fanno autostrada: veicolano i suoni, rumori e voci, del perturbamento e ti portano senza quasi che tu te ne renda conto ad accorgerti che il “fuori” e il “dentro” ti stanno attraversando. Qualcuno direbbe che è il punto di crisi. Hai superato il crinale e puoi avviarti alla seconda parte del museo laboratorio. Quella che ti introduce sempre più nel punto di vista degli internati.
Nof (ovvero Nannetti) e Baieri sono due esempi di “arte irregolare”, presi da Studio Azzurro per simboleggiare e ricordare tutti gli Inventori di mondi (come si chiama la sezione). Personalità estroverse che esprimendosi hanno trovato una loro, originalissima, strada. Che troppe volte e troppo spesso è stata sbarrata dall’Istituzione, che è – e siamo all’ultima parte del museo – per definizione “chiusa” (un video, che ripercorre l’avventura basagliana attraverso testimonianze di medici e pazienti, ci ricorda il lungo percorso per aprirla).
Compiuto un ultimo corridoio (dal quale è possibile sbirciare ambienti vari del padiglione di un tempo, la camera da letto tipo, gli strumenti di contenzione, la macchina con cui si somministravano, per dir così, gli elettroshock), il visitatore si ritrova, ed è un contrasto anche percettivo, all’interno del refettorio nel quale per decenni i malati hanno mangiato. Senza forchetta e coltello. Quasi costretti a usare le mani (Lia Traverso, una ricoverata degli anni 70, vinse al proposito una sua crociata e ne tramandò la memoria nei suoi Diari).
È la sezione più multimediale del museo. Un touch-screen dischiude nuove storie, evoca racconti che riemergono da armadi nei quali probabilmente ancora non abbiamo ben scavato. Se è vero che oggi – a distanza di tanti anni dalla legge voluta dallo psichiatra veneziano – si comincia a pensare in termini contro-riformistici a una modifica di quella normativa.
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