Sostenibilità

Racconti di (stra)ordinarria follia

Roma e Trieste. Entrata e uscita dal manicomio. Due viaggi emozionanti

di Maurizio Regosa

Un percorso sensoriale alla scoperta della vita dentro il padiglione psichiatrico della capitale. Voci, immagini, rumori, storie che ribaltano le percezioni comuni. Le “macchine delle meraviglie” di Studio Azzurro per impazzire, per qualche ora. E finalmente capire meglio I sensi prima di tutto. E l’immaginazione. Che è poi quella che ci fa pre-giudicare le situazioni. E ci spinge a catalogare l’ignoto sulla base del noto, il “diverso” in virtù del “normale”, il “non sano” sulla base di una “salute”. Potremmo nominarla “percezione che rassicura”. Proprio quella contro cui ci si scontra entrando nel Museo laboratorio della mente, creato da Studio Azzurro nel padiglione 6 dell’ex manicomio provinciale di Roma (attivo fino al 1999, anno in cui sono “usciti” gli ultimi pazienti). Nel padiglione, liberato dai suoi 60, dolorosi, letti, nel 2008 è stato allestito un percorso che comincia con un doppio paradosso – «Entrare fuori uscire dentro» – che significa anche lo sforzo richiesto ai visitatori: superare le consuetudini per arrivare al nocciolo. Non a caso in questo museo non si entra soli. Si va accompagnati. Come in tutti i cammini impegnativi.

I sensi incerti
La nostra guida è il direttore del museo, lo psichiatra Pompeo Martelli. È lui a spiegare come nei secoli il manicomio della capitale sia scivolato oltre lo sguardo (dalla centralissima piazza Colonna, dove fu collocato nel 1548 l’Ospedale dei poveri forestieri e pazzi, giusto di fronte all’attuale Parlamento, a Monte Mario): rimozione dalla vista (collettiva). Ed è appunto dal vedere che si parte. Dalla Camera di Ames, inventata a metà 900 dall’oftalmologo americano Adelbert Ames: ti sporgi su un piccolo foro e comprendi che la prospettiva di sempre, razionale e comoda, non ti servirà per comprendere. Giacché i sensi, appunto, ti suggeriranno cose contrastanti. Next step: una camera e mille voci. Quale sia la tua non importa. Conta l’effetto di straniamento. La con-fusione. Il perturbante che giunge dal microfono nel quale parli e dalle casse che non restituiscono soltanto la tua voce. Un effetto simile a quello proposto nella stanza successiva: uno schermo intercetta la tua figura e la contamina, ma tu non lo sai, con il tempo. E Sisifo sa bene quanto grande sia la fatica.
Dopo la prima sezione che decostruisce le consuetudini – ne avrete già compreso il titolo: Modi del sentire – ci si addentra nel padiglione. In senso fisico e metaforico: il visitatore si sottopone al rito della schedatura fotografica, che per lui è volontario, e si confronta con i ritratti che lo psichiatra Romolo Righetti faceva, negli anni 30, ai suoi pazienti. L’arte che va oltre la scienza e scopre l’originalità di ciascuno sguardo individuale. Dopo i ritratti, le Dimore del corpo. Ancora una volta la tecnologia si fa arte. Appoggi i gomiti su un tavolo, la testa tra le mani, e le ossa si fanno autostrada: veicolano i suoni, rumori e voci, del perturbamento e ti portano senza quasi che tu te ne renda conto ad accorgerti che il “fuori” e il “dentro” ti stanno attraversando. Qualcuno direbbe che è il punto di crisi. Hai superato il crinale e puoi avviarti alla seconda parte del museo laboratorio. Quella che ti introduce sempre più nel punto di vista degli internati.
Arte irregolare
Fuori/dentro, appunto. A guardare i graffiti (in parte riprodotti su una parete trasparente) in cui si è perso Fernando Oreste Nannetti – una vita nell’ospedale di Volterra e 180 metri di opere in cui l’«astronautico ingegnere minerario», come si autodefiniva, ha dispiegato un universo di simboli, parole e miti. O ad ammirare i dipinti di Gianfranco Baieri, un “figlio della colpa”, ovvero di una donna non sposata, condannato – ed è la parola giusta – a più di 50 anni di reclusione nel manicomio romano. Oggi i suoi quadri hanno un mercato; gli esperti scrivono saggi e i collezionisti staccano assegni a più zeri.
Nof (ovvero Nannetti) e Baieri sono due esempi di “arte irregolare”, presi da Studio Azzurro per simboleggiare e ricordare tutti gli Inventori di mondi (come si chiama la sezione). Personalità estroverse che esprimendosi hanno trovato una loro, originalissima, strada. Che troppe volte e troppo spesso è stata sbarrata dall’Istituzione, che è – e siamo all’ultima parte del museo – per definizione “chiusa” (un video, che ripercorre l’avventura basagliana attraverso testimonianze di medici e pazienti, ci ricorda il lungo percorso per aprirla).
Compiuto un ultimo corridoio (dal quale è possibile sbirciare ambienti vari del padiglione di un tempo, la camera da letto tipo, gli strumenti di contenzione, la macchina con cui si somministravano, per dir così, gli elettroshock), il visitatore si ritrova, ed è un contrasto anche percettivo, all’interno del refettorio nel quale per decenni i malati hanno mangiato. Senza forchetta e coltello. Quasi costretti a usare le mani (Lia Traverso, una ricoverata degli anni 70, vinse al proposito una sua crociata e ne tramandò la memoria nei suoi Diari).
È la sezione più multimediale del museo. Un touch-screen dischiude nuove storie, evoca racconti che riemergono da armadi nei quali probabilmente ancora non abbiamo ben scavato. Se è vero che oggi – a distanza di tanti anni dalla legge voluta dallo psichiatra veneziano – si comincia a pensare in termini contro-riformistici a una modifica di quella normativa.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.