Care leaver
Raccontare il mondo di Blessing? Su di me ha lasciato il segno
Il regista Pietro Porporati ha diretto due episodi di "Zona protetta", la serie sui care leaver: uno è quello dedicato a Blessing. «Non conoscevo le case famiglie, ma ho capito subito che gli educatori lavorano per trasformare un trauma in qualcosa di positivo»
di Alessio Nisi
Blessing e Pietro sono praticamente coetanei. Quei quattro o cinque anni di distanza anagrafica (lui ha 27 anni) rappresentano uno zero in termini di differenza. È una vicinanza che ti permette di entrare in sintonia più facilmente. Anche quando le strade che ti hanno portato ad incontrarti sono diverse, lontane, opposte quasi. Succede allora che raccontare una storia non resti solo un’attività professionale, ma lasci una coda di emozioni, che magari aiutano a darti delle risposte. E poi c’è il dopo.
È un po’ quello che è successo a Blessing e Pietro Porporati, rispettivamente una delle protagoniste e uno dei dieci giovani registi di Zona protetta (Porporati ha diretto anche l’episodio dedicato a Vanessa), una docu-serie che racconta la vita di dieci care leaver che hanno vissuto l’adolescenza in comunità, fuori famiglia.
Dicevamo, il dopo. Blessing dopo aver compiuto 18 anni salirà su un autobus con le sue cose, senza nemmeno un indirizzo in mano: i servizi sociali le hanno solo suggerito di chiamare la Sala operativa di Roma Capitale, che si limita ad offrirle un letto per la notte nelle stesse strutture che ospitano gli homeless. Mentre la serie è in onda in terza serata su Raitre, abbiamo raggiunto Pietro Porporati che sta pensando di non abbandonare la storia di Blessing (un film? Forse), che nel frattempo è tornata dalla famiglia di origine in Africa, dopo che l’uscita dalla casa famiglia che si è rivelata dura e impattante.
«Blessing è una combattente. Ora sta meglio, sì» dice Porporati.
Porporati, lei e le altre registe e registi di “Zona Protetta” siete tutti molto giovani.
È stato molto importante che dei giovani registi si interfacciassero con questi ragazzi proprio per un fatto anagrafico. Siamo riusciti a metterci in sintonia subito con loro. Magari un regista più adulto o con più esperienza avrebbe faticato di più, perché i ragazzi si sarebbero un po’ spaventati.
Dieci episodi da venticinque minuti che raccontano le storie di dodici ragazzi e ragazze che hanno affrontato l’adolescenza in una comunità per minori. Tra loro Blessing. Come sei entrato in sintonia con lei? Da regista quale è stato il tuo obiettivo?
Quando ho incontrato Blessing, lei era in un momento molto particolare: stava per compiere 18 anni e per uscire dalla casa famiglia, dopo una serie di traumi e un passato turbolento. Le riprese della serie quindi hanno rappresentato un carico ulteriore per lei. Mi sono avvicinato a lei mettendo da parte il mio essere regista e cercando di condividere le sue paure.
Si può dire che siete diventati amici?
Sì, si è instaurato un rapporto umano basato sulla condivisione. Eravamo allo stesso livello. Essere tra i registi di questa serie (il documentario in questo caso è la forma migliore) è stato estremamente stimolante. È stato un lavoro umano prima che da regista e mi ha permesso di entrare in empatia con i ragazzi. Di Blessing volevo raccontare il passaggio dalla giovinezza all’età adulta, l’uscita dalla casa famiglia e l’impatto con una vita “non protetta”.
Un impatto molto duro. Quella telefonata tra Blessing e la Sala operativa di Roma Capitale è drammatica…
L’uscita di Blessing è stata traumatica. Non le hanno approvato la semi-autonomia, che vuol dire la permanenza in struttura fino ai 21 anni, per cui lei è tornata dalla famiglia di origine. Non me la sento di incolpare i servizi sociali ma sì, era necessaria una maggior tutela.
Prima di lavorare a Zona Protetta sapeva cos’era una casa famiglia?
No, ma mi sono reso conto subito di come gli educatori siano persone impegnate nel trasformare un trauma in qualcosa di positivo.
In apertura e nel testo foto di di Kon – Tiki Film, tratte dalla serie “Zona protetta”
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