Formazione

Quirinale: Napolitano raccontato da lui stesso

Un’antologia dell’autobiografia del nuovo presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, tratta dal libro "Dal Pci al socialismo europeo", edito da Laterza

di Redazione

Il trauma del rapporto Krusciov e dei “fatti d’Ungheria” Un’ampia gamma di reazioni. Da un incredulo rifiuto sino a un senso di liberazione per quel bagno di verità e di impulso al rinnovamento. Sono questi i cardini che definiscono la traumatica esperienza del “rapporto segreto” di Krusciov al XX Congresso del Pcus nel 1956 – che denunciava le aberrazioni e i crimini di Stalin – descritti da Giorgio Napolitano nella sua autobiografia politica “Dal Pci al socialismoeuropeo”, edito da Laterza, di cui proponiamo una serie di estratti dedicati alle tappe più significative della carriera politica del senatore a vita candidato alla presidenza della Repubblica. All’interno del Partito comunista italiano l’ala meno disposta a compromessi con la profondità del mito e del culto del leader sino ad allora incontrastato del socialismo reale – in polemica trasparente con le reticenze di Togliatti – si coagulava intorno ai combattivi esponenti della generazione dei quarantenni di allora, che trovava in Giorgio Amendola “il principale punto di riferimento” (pag. 39). Si stava avviando così la preparazione dell’VIII Congresso del Pci all’insegna della “via italiana al socialismo” come via democratica e nazionale. Una contrapposizione frontale con la “doppiezza” di quanti, “anche al vertice del partito”, alimentavano o non combattevano l’attesa dell’ora X, cioè un possibile ricorso alla forza per la conquista del potere dinanzi al precipitare della situazione internazionale o al prevalere delle forze più reazionarie del paese (pag. 40). Ma in quei giorni, tra l’ottobre e il novembre del 1956, ci fu il trauma dei fatti d’Ungheria, la rivoluzione magiara e la sua repressione. Napolitano ricorda come un suo “grave tormento autocritico” la giustificazione fornita all’intervento militare sovietico per soffocare un moto popolare bollato come controrivoluzionario. Non fu solo zelo conformistico. Giocò allora la preoccupazione dell’unità del partito e, soprattutto, “il concepire il ruolo e l’azione del Partito comunista come inseparabile dalle sorti del ‘campo socialista’ guidato dall’Urss e la necessità dell’intangibilità di quel campo di fronte alla sfida del fronte ‘imperialista’”. Molti anni e altri travagli si sarebbero dovuti affrontare prima che i comunisti italiani si potesseroidentificare “pienamente con l’eredità più alta del liberalismo e della democrazia”. Con Longo l?ingresso in direzione. Alessandro Natta, Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano. Sono questi i tre nomi che nel 1968 il segretario Luigi Longo propone alla direzione del Partito comunista italiano nell’ottica di preparare la propria successione nella carica più importante. Napolitano ricorda quei giorni nella sua autobiografia politica (“Dal Pci al socialismo europeo”, Laterza) e sottolinea l’intento del successore di Togliatti di non voler “morire segretario”. In più, e la lezione resta di grande attualità nel nostro Paese, Longo punta su un ricambio generazionale dei vertici. “Longo – scrive Napolitano – aveva chiaramente preannunciato la sua idea di un salto generazionale nella massima responsabilità di direzione del Pci. Idea che poteva non essere pacifica; ma ritengo che i due rappresentanti di una generazione più anziana che avrebbero potuto naturalmente competere per la successione, e cioè Amendola e Ingrao, compresero le ragioni di Longo e si predisposero ad accettarle” (pag. 85-86). Una posizione di concordia interna che si manifestò di nuovo al momento della scelta effettiva del nuovo vicesegretario che avrebbe affiancato – e poi sostituito – Longo, che versava anche in difficili condizioni di salute. Napolitano scrive: “Non c’era dubbio che obiettivamente fosse Berlinguer ad avere più titoli; e indipendentemente dalla larghissima convergenza sul suo nome che si registrò nella consultazione, […] presi io stesso la parola in riunione per dirmene persuaso” (pag. 89). Un fair play che colpisce positivamente gli osservatori odierni e che le parole di Napolitano sottolineano ulteriormente: “Il mio fu un convinto consenso. Non mi aveva, nei due anni precedenti, mai dato alla testa – e non l’avevo mai presa sul serio – l’etichettatura di ‘vice’ o di ‘numero due’ che mi era stata affibbiata per effetto del mio ruolo di coordinatore, presente in entrambi gli organismi, ufficio politico e ufficio di segreteria. Può darsi che chi difetti di presunzione e ambizione – scrive ancora Napolitano con finezza – non sia destinato ad affermarsi come capo politico. Ma in quell’autunno del ’68, fu in modo meditato e per ragioni ben consistenti che assunsi quell’atteggiamento, chemi tirai indietro, che ritenni di dover cedere il passo a Enrico Berlinguer” (pag. 89). L’invasione sovietica della Cecoslovacchia L?invasione sovietica della Cecoslovacchia che, il 20 agosto del 1968, pose drammaticamente fine alla “primavera di Praga” di Alexander Dubcek, è ricordata da Giorgio Napolitano come il primo momento di pubblica rottura con l’Unione Sovietica. Nella sua autobiografia politica (“Dal Pci al socialismo europeo”, Laterza) lo storico esponente del riformismo racconta il travaglio politico e personale seguito al diffondersi delle notizie dalla Cecoslovacchia, ma anche la ferma convinzione che l’azione sovietica dovesse essere condannata dal Partito comunista italiano, allora guidato da Luigi Longo, che già aveva espresso apprezzamento per le scelte di Dubcek. “Avevamo varcato per la prima volta – scrive Napolitano a proposito della risoluzione di condanna stesa proprio da lui – la soglia di una pubblica espressione di ‘grave dissenso’ del Pci dall’Unione Sovietica: il valore di quella presa di posizione apparve chiaro ai più, e non può a distanza di tempo essere messo in dubbio, per quanti rilievi possano muoversi ai nostri comportamenti successivi, non conseguenti o non lineari” (pag. 88). Napolitano, all’epoca membro di primo piano della direzione del partito di Botteghe Oscure, ricorda anche il clima di angoscia e tensione che precedette e seguì la storica decisione di dissentire da Mosca: “Se per compagni come me – scrive – la decisione di esprimere dissenso o condanna nei confronti dell’Urss aveva richiesto uno sforzo, per Longo si trattò di un vero e proprio trauma, come si poteva intuire pensando a tutta la sua esperienza di vecchio dirigente comunista italiano, al legame profondo che la sua generazione aveva stabilito con la storia dell’Unione Sovietica e di quel Partito comunista” (pag. 88). La parziale rottura con Mosca, poco dopo la quale Luigi Longo fu anche colpito da un ictus, era comunque motivata, secondo Napolitano, dal convinto apprezzamento con cui i dirigenti del Pci guardavano all’esperimento di Praga. “Nel caso cecoslovacco – scrive l’ex presidente della Camera – non si trattava solo di un progetto di riforme economiche, ma di un programma di radicale riforma politica, nel senso del pluralismo e la democrazia” (pag. 86). Gli anni della contestazione A cavallo degli anni della contestazione giovanile il Pci vive anche il momento difficile rappresentato dalla radiazione dal partito del gruppo di intellettuali che aveva dato vita alla rivista “Il Manifesto”. Giorgio Napolitano dedica a questo episodio alcune pagine della sua autobiografia politica (“Dal Pci al socialismo europeo”, Laterza): “Fu un momento difficile – scrive Napolitano – data la qualità dei promotori di quella rivista e di quel gruppo (Aldo Natoli, Luigi Pintor, Rossana Rossanda); e anche se la loro radiazione dal partito non provocò un consistente distacco di intellettuali dal Pci, va ricordato come un posto centrale ebbero in quello scontro le questioni relative all’Urss e al movimento comunista internazionale” (pag. 105). A oltre 35 anni di distanza, comunque, Napolitano difende la motivazioni che portarono la direzione del partito a ritenere inaccettabili le prese di posizione del gruppo: “Da più parti – scrive il candidato del centrosinistra alla presidenza della Repubblica – si metteva in discussione la natura e il ruolo dell’Unione Sovietica, e a questo proposito il discorso del ‘Manifesto’ non era privo di fondamento. Ma quel che rendeva contraddittorio il discorso era il fatto che venisse, di contro, valorizzato il modello cinese. Il Pci non poteva riconoscersi in una simile alternativa” (pag. 106). Napolitano affronta poi in generale il tema degli anni della contestazione: “Il Sessantotto – scrive – fu un riflesso di una crisi politica già in atto e contribuì a farla più complessa e grave. Parlo della sostanziale crisi dell’esperimento riformatore del centro-sinistra: venne di lì una spinta al diffondersi tra i giovani di sfiducia non solo verso i partiti di governo, ma verso il giuoco politico democratico, di rigetto non solo delle promesse riformistiche del centro-sinistra ma del riformismo in quanto tale” (pag. 116). Da sempre portavoce del riformismo di sinistra, Napolitano analizza con lucidità quel periodo storico e non risparmia critiche all’azione del Partito comunista italiano. “I nostri limiti di fondo – scrive il senatore a vita – furono due: da un lato quello di restare impastoiati nella falsa coscienza che il Pci aveva di sé come forza rivoluzionaria. E anche in conseguenza di ciò, il limite, dall’altro lato, di non fare i conti con la necessità di sbloccare il sistema politico democratico italiano, traendo da questa necessità tutte le ineludibili implicazioni” (pag. 117). Che per Napolitano si traducevano sostanzialmente, scrive poco più avanti, in “un sostanziale ricambio di forze dirigenti e di soluzioni di governo” (pag. 119). Napolitano è infine critico con la strategia del Pci che oggi giudica incapace di dare “un taglio netto con tutto l’armamentario ideologico, almeno formalmente rivoluzionario, sopravvissuto anche in un Partito comunista come il nostro che si identificava con i valori e le regole della democrazia”( pag. 119). Agli inizi degli anni ’70 il Partito comunista era sollecitato, anche da problemi economici e sociali sempre più acuti a livello nazionale, a trovare una via d’uscita da antiche preclusioni e ad aprirsi una strada per la partecipazione al governo. Come ricorda Giorgio Napolitano nella sua autobiografia politica “Dal Pci al socialismo europeo”, edito da Laterza, furono una serie di articoli di Enrico Berlinguer sul colpo di Stato in Cile, tra il settembre e l’ottobre 1973, a imprimere una svolta al dibattito politico. Ne scaturì l’indicazione di un nuovo, grande ‘compromesso storico’ tra le forze che rappresentavano la grande maggioranza del popolo italiano. L’impressione fu enorme. L’orientamento della riflessione di Berlinguer era lucidissimo. Dal golpe cileno ricavava “il rifiuto di ogni massimalismo e di ogni rottura sociale nell’esercizio del governo da parte delle sinistra, una lezione di ricerca di vaste alleanze e di attenta ponderazione dei rischi di attacco reazionario” (pag. 122). La formula portava con sé contraddizioni ed equivoci non facili da cogliere nell’immediato eppure, da subito, la situazione politica si rimise in movimento. La novità più rilevante stava nel fatto che il segretario del Pci si rivolgeva alla Democrazia cristiana come interprete delle massi cattoliche e non più solo alle forze “del dissenso” con le quali da tempo i comunisti cercavano il dialogo su posizioni avanzate. Berlinguer intese “rivolgersi alla Dc come rappresentante di quelle masse popolari” per misurarsi con un partito “non chiuso al nuovo” e sulla cui evoluzione “era possibile influire e con cui andava tentata una collaborazione nell’interesse della difesa e dello sviluppo dellademocrazia” (pag. 123). Lo scontro con Mosca Alla fine degli anni ’70 gli avvenimenti internazionali spinsero il Partito comunista italiano su una rotta di collisione con Mosca. Innanzitutto l’invasione sovietica dell’Afghanistan alla fine del 1979. Berlinguer e Ingrao, a nome del partito, presero una nettissima posizione di condanna. Lo testimonia anche Giorgio Napolitano nella sua autobiografia politica “Dal Pci al socialismo europeo”, edito da Laterza: “Da allora il Pci cominciò per la prima volta a qualificare la politica dell’Urss come “politica di potenza”, dalla quale potevano venire atti contrari alla causa della distensione e della pace” (pag. 174). Di lì a poco lo scoppio della “crisi polacca” nell’agosto 1980 avrebbe condotto al “colpo” militare effettuato il 12 dicembre 1981 con l’introduzione dello stato d’assedio e di misure repressive nei confronti dei movimenti di lotta per la libertà e le riforme, a guida, oltretutto, sindacale. La condanna del partito fu nettissima e più decisa di quella assunta sulla Cecoslovacchia. Venivano messe “in questione tutte le ‘società di indirizzo socialista’ costituite sul modello sovietico – ricorda Napolitano – e dunque questo stesso modello”. In buona sostanza non ci si limitava più a difendere la ricerca di una via diversa al socialismo in Italia ma si mettevano in causa mitizzazioni e giustificazioni dell’esperienza dell’Urss (pag. 180). La relazione di Berlinguer al Comitato centrale dell’11-13 gennaio 1982 andò oltre tutte le precedenti prese di posizione. Il fatto che si sottolineasse come il ruolo di Mosca entrasse talora in contrasto “con gli interessi di quei Paesi e popoli che si battono contro l’imperialismo e i regimi reazionari, per la liberazione e l’indipendenza nazionale” minava alla radici il mito dell’Unione Sovietica come sostegno delle lotte dei popoli del Terzo Mondo. Non si trattava solo di parole. Iniziava allora un lungo percorso, sullo slancio di quello storico “strappo”. Il partito comunista si sarebbe svincolato “dal vecchio sistema di rapporti con i partiti comunisti” ricorda Napolitano, per intensificare contatti e relazioni con le forze del socialismo europeo. “Ma ci rifiutavamo di raggiungere la sponda socialdemocratica, di ricongiungere organicamente le nostre forze con quelle dell’altra ala storica del movimento operaio, e ci perdevamo nelle nebbie di un’ipotetica e inafferrabile ‘terza via’” (pag. 183). Le riforme istituzionali come punto di convergenza tra il Pci di Berlinguer e il Psi di Craxi all’inizio degli anni ’80. Dall’autobiografia politica di Giorgio Napolitano (“Dal Pci al socialismo europeo”, editore Laterza) emerge la storia travagliata dei tentativi di creare una vera alternativa di sinistra alla Dc, esperienza poi fallita con la nomina di Bettino Craxi a presidente del Consiglio dopo le elezioni politiche del giugno 1983. Dalla Bicamerale al Governo Da sempre sostenitore della necessità di un’apertura del Partito comunista verso le responsabilità di governo, Napolitano è tra i principali portavoce di questo tentativo politico, “che ebbe una manifestazione vistosa nell’incontro tra delegazioni dei due partiti [Pci e Psi] alle Frattocchie, il 30 marzo del 1983, poco dopo la conclusione del Congresso di Milano” (pag. 190). Socialisti e comunisti concordarono in quella sede – ricorda Napolitano – sulla preoccupazione per la situazione economica e finanziaria del Paese, sulla collaborazione negli enti locali e soprattutto sul tema delle riforme istituzionali. “Fu proprio su quel terreno – scrive il candidato dell’Unione al Quirinale – che mi sforzai di portare un convinto contributo come presidente dei deputati comunisti. Lo posso indicare come aspetto tra i più significativi dei miei quasi cinque anni di attività in quella veste” (pag. 191). In quest’ottica matura l’adesione del Pci alla prima Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, presieduta dal liberale Aldo Bozzi. Il progetto di Napolitano era però di più ampio respiro e lo scrive a chiare lettere lui stesso: “Era mia convinzione che il Pci dovesse distinguere e caratterizzare la sua opposizione prospettando indirizzi alternativi a quelli del governo e della maggioranza, presentando proposte che prefigurassero e rendessero credibile una diversa piattaforma di governo del Paese” (pag. 192). Ma il progetto di convergenza con il Psi – che avrebbe potuto dare una base parlamentare a queste ambizioni – era destinato a fallire poco dopo. “Fu proprio – scrive Napolitano – l’assunzione della presidenza del Consiglio da parte di Craxi a bruciare di colpo tutte le reciproche aperture e i pur cauti avvicinamenti tra Pci e Psi che avevano caratterizzato la fase precedente. […] L’ascesa di Craxi alla guida del governo significò la definitiva conferma di un disegno perverso, quello di sfruttare la rendita di posizione che l’esclusione dei comunisti dal giuoco di governo gli garantiva, per far crescere le posizioni di potere e il peso elettorale del Psi a scapito sia della Dc che del Pci, senza neppure tentare la strada di un’eventuale alternativa di sinistra” (pag. 194). Dal Pci al Pds “Dire che si trattò di una fase travagliata è veramente dire poco”. E’ lapidario il giudizio che Giorgio Napolitano dà sulla svolta della Bolognina, che segnò la fine del Partito comunista italiano e la nascita del Partito democratico della Sinistra, nella sua autobiografia politica “Dal Pci al socialismo europeo”, edita da Laterza. “Tutti noi che ne fummo protagonisti – ricorda Napolitano – attraversammo momenti di profonda emozione, per quel che ci legava a un passato intensamente vissuto e per la responsabilità che ci assumevamo nei confronti delle masse di militanti e simpatizzanti che erano ancora raccolte intorno al Pci” (pag. 247). Emozioni che furono ovviamente affiancate anche da scontri e tensioni, bene esemplificate dalla scissione del cosiddetto “fronte del no” che poi diede vita al partito della Rifondazione comunista. Napolitano, esponente della corrente riformista del partito, ricorda le accuse di subalternità a Craxi, prontamente confutate, e sottolinea alcune prese di posizione forti che i riformisti ribadirono in quei giorni, sotto forma di slogan. “Non dobbiamo buttare a mare il nostro passato”; “Essenziale e unificante deve considerarsi l’elaborazione di un programma, e di una prospettiva di governo, credibili”; “E’ sul terreno della coerenza riformista che il nuovo partito potrà lanciare una sfida unitaria in seno alla sinistra e confrontarsi con tutte le forze politiche democratiche” (pagg. 249-250). Il racconto dell’attuale candidato del centrosinistra alla presidenza della Repubblica non nasconde poi neppure le polemiche interne, e parla di un vero e proprio “attacco all’area riformista”, citando in particolare una dura presa di posizione di posizione di Massimo D’Alema, curiosamente oggi accostato a Napolitano come potenziale rivale per il Quirinale. L’accusa era quella di “fare un favore a Craxi”, “adottando la parola d’ordine di un altro partito” (pag. 261). Napolitano poi ricorda la delusione per il risultato delle elezioni del 1992, prima prova per il Pds, attestatosi su “uno stentato 16 per cento”. Ad andare male fu però la sinistra nel suo complesso: i suoi due maggiori partiti toccarono “il punto più basso di un cinquantennio: meno del 30 per cento per la somma di Psi e Pds” (pag. 263). Un’ultima parte del capitolo sul periodo 1989-1992 è poi dedicata alla fine dell’Urss, definita “l’accadimento di gran lunga più sconvolgente, da tutti i punti di vista” (pag. 266). Un evento sul quale però, nota criticamente Napolitano, “la riflessione non si sviluppò né allora né dopo col rigore che sarebbe stato necessario”. Il ministro dell?interno Curiosità, attese e false aspettative. Questi i sentimenti dell’opinione pubblica con l’ingresso, nel maggio 1996 e per la prima volta da cinquant’anni, di un rappresentante dell’opposizione di sinistra nel luogo più riservato della gestione del governo, il Viminale, il ministero dell’Interno. Ne dà testimonianza in prima persona il protagonista di quello storico avvicendamento, Giorgio Napolitano, nella sua autobiografia politica “Dal Pci al socialismo europeo”, edito da Laterza. Nella visione della Democrazia cristiana, quel ministero era il “centro nevralgico dell’amministrazione dello Stato, simbolo di una posizione egemonica di governo, struttura di potere per eccellenza, oltre che istanza suprema di garanzia dell’ordine pubblico”. Da qui la speranza, o l’illusione, che si potesse finalmente raggiungere la verità su tante vicende oscure, tragiche e dolorose del passato. Tutte riconducibili, principalmente, alla “strategia della tensione”. Ma, naturalmente, ricorda Napolitano, “non c’era al Viminale una qualche cassaforte che custodisse quelle verità, che contenesse la chiave di quei ‘misteri'”. Quello che ragionevolmente e senza ingenuità poteva essere fatto dal governo Prodi di quegli anni fu togliere il “vincolo del segreto di Stato a documenti riservati, assicurando piena e attiva collaborazione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e sulle stragi, dando ogni sostegno alle indagini dell’autorità giudiziaria” (pag. 291-292). D’altra parte, il compito del nuovo ministro dell’Interno non poteva essere quello di indagare sul passato. Napolitano era convinto che “il compito, il dovere da assolvere fosse quello di governare al meglio nel presente, di compiere il massimo sforzo per assicurare correttezza e trasparenza nella gestione degli apparati preposti alla sicurezza dello Stato e dei cittadini, di scongiurare il ripetersi delle deviazioni del passato” (pag. 292). La scoperta dell?Europa L’approdo europeo è l’ultima tappa politica di cui Giorgio Napolitano tratta nella sua intensa autobiografia (“Dal Pci al socialismo europeo”, Laterza). Un approdo che egli definisce senza mezzi termini “la più radicale rottura del Pci con il suo bagaglio ideologico originario, con la sua visione rivoluzionaria di matrice leninista, con l’ancora non del tutto spento idoleggiamento del ‘socialismo diventato realtà’ nell’Urss e dovunque i partiti comunisti fossero giunti al potere” (pag. 312). Un risultato che Napolitano ascrive anche all’influsso di Altiero Spinelli, il grande pensatore federalista europeo che dal Pci era anche stato espulso, prima di tornarvi a candidarsi come indipendente nel 1976. L’europeismo di Napolitano ha soprattutto una caratura anti- totalitaria: “L’insegnamento che abbiamo il dovere di trasmettere alle nuove generazioni della sinistra italiana – scrive il senatore a vita – è quello di non ricadere in mitizzazioni di nessun tipo, di guardarsi da utopie che possano, comunque si presentino, produrre risultati di violenza, di oppressione, di morte, anche in contrasto con gli ideali proclamati” (pag. 320). Ma lo spazio per le utopie è, secondo Napolitano, ancora possibile. “L’europeismo – scrive nelle appassionate pagine finali del suo libro – l’idea di un’Europa unita nella democrazia e nella pace, ha rappresentato l’esempio più alto di utopia mite, non violenta, portatrice di libertà e di progresso, non rovesciabile nel suo contrario. E in questo senso essa si è venuta realizzando e svolgendo a partire dagli anni ’50 dello scorso secolo” (pag. 322). E in questo contesto prosegue l’opera di un socialista che oggi guarda con convinzione verso l’orizzonte comunitario.

  • Il libro: Giorgio Napolitano, “Dal Pci al socialismo europeo – Un’autobiografia politica”, Editori Laterza, 350 pag, 22 euro.

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