Volontariato

Quindici anni per salvare l’Africa

Una sfida da vincere entro il 2015: dimezzare il numero di coloro che nel mondo sono minacciati dalla morte per fame e aumentare gli investimenti nell’agricoltura.Soprattutto nell' Africa.

di Marco Piazza

Roma,1996. Il vertice mondiale della Fao che ha visto la partecipazione tra gli altri, del Papa e di Fidel Castro, si chiude con una scommessa da giocarsi sulla pelle di 840 milioni di persone: quella di dimezzare, entro l?anno 2015, il numero di coloro che nel mondo soffrono la fame. Soprattutto nei Paesi dell?Africa. Sono passati due anni e anche se in pochi ne parlano la Fao sta portando avanti quel programma, nonostante nel frattempo, per colpa del Niño, di inondazioni, di siccità e di tante guerre, la situazione si sia ulteriormente aggravata. Per riuscire nell?obiettivo é previsto che nei prossimi quindici anni, l?investimento nell?agricoltura dei Paesi in via di sviluppo aumenti almeno del 25 per cento, per raggiungere un totale di 166 miliardi di dollari l?anno, di cui i tre quarti dovrebbero venire dagli agricoltori stessi e il restante quarto (41 millardi di dollari) dagli aiuti internazionali. Tutto questo può funzionare, a detta del vice direttore generale della Fao, l?ambasciatore Manfredo Incisa di Camerana, se si coinvolgono i governi e le comunità locali. E a tale scopo non si può fare a meno di missionari ed ong.
È vero che negli ultimi due anni il dramma della fame si è ulteriormente aggravato?
Certamente gli avvenimenti naturali e quelli provocati dell?uomo hanno aumentato il numero delle persone bisognose di aiuti alimentari. Penso agli effetti del Niño, alle guerre civili africane e dei Balcani, al recente straripamento dello Yangtze Kiang in Cina. In casi come questi l?aiuto non e dovuto alla carenza delle risorse, ma al fatto che queste siano state fortemente danneggiate. Qui il Pam (Programma alimentare mondiale) fornisce beni alle popolazioni colpite, noi della Fao interveniamo affinche i terreni, inondati o inariditi riacquistino la loro massima produttività.
Quale è la strategia a lungo termine?
Una premessa: la libertà dalla fame è diritto fondamentale da rispettare. Come? La Fao ritiene che il primo passo sia lo sviluppo delle aree rurali. La ripresa dell?agricoltura avrebbe due effetti positivi: ridurrebbe il fabbisogno di beni alimentari e permetterebbe il rientro nelle campagne delle masse urbanizzate che vivono nelle bidonville. Ma non basta. Servono strutture amministrative, servizi, strade. E ciò si può fare solo se si coinvolgono le comunita locali.
Ma non è utopistico pensare di coinvolgere le comumità locali in Paesi dove governano regimi autoritari?
Noi chiediamo la collaborazione totale delle autorità, di qualsiasi colore esse siano. E non c?è al mondo un governo che rifiuti di collaborare con noi, perché la fame è causa di instabilità. Ma anche se i governanti collaborano non potremo mai farcela senza l?aiuto delle ong.
Qual è il loro peso in questi progetti?
È un peso enorme. Conoscono le popolazioni locali, la loro cultura, i loro costumi, sono ben voluti da tutti. È per questo che sono sempre consultati e che spesso diventano gli esecutori materiali dei progetti.
È vero che le biotecnologie sono uno strumento fondamentale nella lotta alla fame?
Il dibattito è aperto. C?è una Commissione intergovernativa che sta mettendo a punto un manuale di condotta con regole certe per tutti. Finora posso dire che le biotecnologie sono applicate con successo in alcune aree, come l?India e il Brasile. Ma queste coltivazioni potrebbero essere sperimentate anche in alcune zone dell?Africa.
Il futuro del pianeta viene spesso descritto con scenari apocalittici…
Sì, la situazione è molto seria e richiede interventi immediati. La desertificazione, ad esempio, è dovuta ad applicazioni di tecniche agricole sbagliate, ma non è invincibile. Programmi Fao dimostrano come sia possibile attuare la riforestazione perfino nel Sahel. L?Italia ha finanziato un progetto in Niger, dove è stata ricreata una foresta. Servono tanti soldi e soprattutto una volontà comune, ma possiamo farcela.

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