Famiglia

Qui Nike, il pallone è ok

Centri di cucitura con 5 mila lavoratori, tutti al di sopra dei 16 anni. Controllati da organismi internazionali. Aiuti alle famiglie, strutture sanitarie e un piano per le donne pakistane. Un manag

di Redazione

?Mandate i vostri figli a scuola, non a lavorare?, ammonisce un cartello in inglese. Suggerisco al mio accompagnatore di farlo tradurre anche in urdu, la lingua pakistana, per permettere a tutti di comprenderne il messaggio. È il mio primo impatto con il distretto industriale, spesso, a torto o a ragione, dipinto come un Inferno, dove imprenditori senza scrupoli sfruttano povera gente e i loro figli per produrre i palloni usati poi dai ricchi atleti occidentali.
Eppure anche a Sialkot, città di frontiera pakistana, si possono trovare esempi di aziende che sono riuscite a creare modelli di responsabilità sociale. Mi riferisco all?accordo siglato tra Nike e Saga Sports, il maggiore produttore pakistano di palloni, per eliminare il lavoro minorile in questo settore. Circa due anni fa, infatti, Nike decise di realizzare una propria linea di palloni da calcio affidando la produzione ad alcune aziende pakistane. Immediatamente ci si scontrò con una pratica insita nel contesto economico e sociale pakistano, ovvero subappaltare la fase di cucitura dei palloni a delle famiglie, le quali sovente, per aumentare la produzione, pagata a cottimo, affidavano la cucitura ai propri bambini. Non abbiamo quindi aspettato le proteste internazionali per muoverci; anche se senza lo stimolo di organizzazioni come Unicef, Save the Children, Christian Aid e altre non saremmo riusciti a realizzare in Pakistan quello che abbiamo fatto.
L?approccio di Nike e Saga ha seguito due fasi: eliminare l?utilizzo dei minori e creare un?alternativa per restituire alle famiglie, almeno a livello di contributo sociale, una parte di quel reddito indispensabile. In due anni sono stati edificati dieci centri di cucitura dove si è concentrato il cento per cento della produzione di palloni Nike e dove operano quasi 5 mila lavoratori, tutti al di sopra dei 16 anni. I centri, dotati di servizi gratuiti (ricoveri sanitari, mense, centri di ricreazione, negozi a prezzi ribassati, un sistema di trasporti dai villaggi), sono monitorati dall?Organizzazione internazionale del lavoro.
Nike è stata anche una delle aziende promotrici dell?accordo siglato nel 1997 tra la Federazione mondiale dei produttori di articoli sportivi, Unicef, Save the Children e Oil, per creare un fondo di compensazione per le famiglie dei lavoratori, lanciando anche programmi di educazione gratuita ai bambini in età scolare. Ma forse il progetto più rilevante, per l?impatto che esso ha nella cultura pakistana (che impedisce a uomini e donne di lavorare insieme), è la creazione di un centro per la manodopera femminile, l?unico in Pakistan. In questo impianto si sta anche progettando, con l?aiuto di alcune Ong, di costituire dei programmi di sviluppo ed educazione per sole donne.
E il processo non si deve fermare. Solo attraverso l?impegno congiunto di aziende, autorità locali, Ong e associazioni dei lavoratori, e con l?aiuto dei media, si potrà esportare questo modello positivo, evitando facili strumentalizzazioni e forme di boicottaggio che non giovano soprattutto ai lavoratori locali, angosciati dall?idea di un embargo internazionale. È interessante notare che Save the Children e altre organizzazioni non integraliste non hanno mai voluto parlare di boicottaggio. Purtroppo la gente è ferma al passato, crede che non sia cambiato nulla e continua a demonizzare le multinazionali.
Resto impressionato, infine, dal progetto di Mr. Soofi, titolare di Saga Sports, il quale prevede di aprire i servizi collegati a questi stabilimenti a tutti gli abitanti dei villaggi circostanti, creando dei centri di aggregazione sociale per la comunità. E mi rincuoro, guardando i bambini sorridenti giocare nell?asilo che abbiamo costruito.
Pier Donato Vercellone
manager di Nike Italia

L?intervento di Francesco Gesualdi
E dopo il primo passo…

Prendo atto con piacere delle iniziative sociali prese da una multinazionale come Nike. Ma è mia sensazione che questa ?conversione? abbia origine da una necessità di mercato: questi mastodonti stanno con le antenne dritte, e appena percepiscono che qualcosa – soprattutto di così raccapricciante come il lavoro minorile – possa far loro perdere i clienti, subito corrono ai ripari. Ma bisogna avere la sensibilità giusta per muoversi in questi complicati Paesi; il lavoro dei bambini, infatti, è solo un aspetto di una situazione economica spesso insostenibile, ed è come il gioco dello shangai: bisogna fare attenzione a che pezzo stai muovendo, e alle conseguenze della mossa. Certo, dal punto di vista dell?industria che osserva dall?alto, tutto appare a posto.
Comunque è un fatto che su questo tema, quello dei palloni e dei bimbi che li cuciono in Pakistan, un?azienda come Nike si sia messa a posto, e bisogna prenderne atto. Ma le altre aziende come stanno procedendo? E in Vietnam, Cina, Bangladesh, Indonesia, El Salvador, Honduras? In questi Paesi, bisogna dirlo, continua la produzione incontrollata dell?abbigliamento, delle calzature sportive e di tantissimi altri articoli che non ?fanno notizia? come i palloni nell?anno dei Mondiali. Tuttavia nessuno ne parla, e quindi le aziende non hanno nessuno interesse a intervenire ?socialmente?. Per esempio citerò la segnalazione di un comportamento socialmente scorretto anche se non grave come lo sfruttamento dei minori che ci è appena arrivata, e che riguarda proprio la Nike, dall??Asian Monitor Resource Centre? di Hong Kong: in Vietnam la Nike, per la produzione delle scarpe, si appoggia a due aziende, la coreana Samyang e la taiwanese Yue Yueng; siccome nella prima, in seguito a uno sciopero, si è arrivati a un adeguamento dei salari, la multinazionale americana ha ben pensato di spostare tutte le sue commesse sull?altra. Insomma c?è ancora tanto da fare e speriamo che la Nike prosegua nel cammino intrapreso e altre la seguano.
coordinatore Centro nuovo modello di sviluppo

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