Cultura

Qui la cittadinanza è quasi un’utopia

Integrazione. Cambiare la legge “ottocentesca” per la naturalizzazione

di Maurizio Regosa

Tempi biblici. Procedure burocratiche infinite. E spesso basta un cavillo per far saltare tutto. Oggi tanti che nascono in italia non sanno quando diventeranno italiani. Colpa di una normativa che è ora di cambiare…

Non ci vorrà molto. Fra trent?anni – a parere degli esperti – la popolazione italiana d?origine immigrata sarà circa un quinto del totale. Una trasformazione epocale, avviatasi anni fa e che attende di essere governata. «Pena avere un enorme cuneo d?estraneità nel Paese», avverte Franco Pittau della Caritas italiana.

Marginalità prossima ventura?

A guardare i dati, però, il rischio marginalità è tutt?altro che ipotetico e di là da venire. Secondo il XIII Rapporto sulle migrazioni presentato lo scorso anno dall?Ismu, già ora le persone d?origine straniera che vivono in Italia sono quasi 4 milioni (un incremento rispetto al 2006 di 600mila unità, il 20,6%). Non vu cumpra? o clandestini, come troppo spesso si propaganda: lo scorso anno ha fatto registrare il minimo storico di irregolari (secondo Ismu, 350mila persone), l?aumento dei regolari (il 6% della popolazione) e un record per quanto riguarda il loro contributo al Pil nostrano (siamo ormai a quota 8,8%).

Il nodo della cittadinanza

Il profilo sociale del Belpaese è già cambiato. Sarà il caso di prenderne atto in modo serio. Non con estemporanee proposte avanzate la mattina e ritirate la sera (come quella ricorrente, di ?concedere? il voto amministrativo agli immigrati). Ma con iniziative concrete, sviluppate in modo coerente, che guardino in prospettiva, preparando un futuro sensato ad esempio ai 650mila stranieri che frequentano le nostre scuole (circa 400mila di loro sono nati in Italia: a 18 anni, se nulla cambia, diventeranno clandestini).

È un fenomeno da governare. E se hanno ragione quanti – fra cui lo stesso Pittau – sottolineano l?importanza di facilitare per gli immigrati protagonismo e partecipazione sociale, di creare politiche di accoglienza che comprendano i diversi aspetti esistenziali (lavoro, casa, scuola), di non escludere gli stranieri che vivono qui da possibilità (ad esempio dal pubblico impiego) o benefici (è successo: per esempio per il bonus bebè), probabilmente il nodo vero – perché strutturale, prospettico – è quello della cittadinanza giuridica. Attualmente regolata da una legge che, pur risalendo solo al 1992, è precocemente invecchiata, imperniata com?è su un lungo iter oppure sulla chance matrimoniale: si acquista la cittadinanza se si sposa un cittadino italiano (ed è questa la strada per lo più seguita). «Un?opzione che ci deriva dal Codice napoleonico, che non è prevista nemmeno negli Stati Uniti», commenta Ennio Codini, professore alla Cattolica di Milano, «e che nulla dice circa la vera integrazione del nuovo cittadino. Dovremmo viceversa costruire un percorso che renda la cittadinanza un vero fattore d?integrazione».

Va ricordato che il governo Prodi ha approvato nell?agosto 2006 un disegno di legge a firma Amato: per chiedere la cittadinanza, si sarebbe passati dagli attuali 10 anni più tre (la media per l?iter burocratico) a 5. Un obiettivo un po? troppo ambizioso (una buona e pratica mediazione potrebbe essere 7). Novità ancor più significative per i minori: avrebbe potuto acquisire il diritto alla cittadinanza il nato in Italia da genitori stranieri, di cui uno almeno sia legalmente residente, senza interruzione, da cinque anni al momento della nascita, e in possesso del requisito reddituale previsto per il permesso di soggiorno europeo per soggiornanti di lungo periodo.

Un cammino ragionevole

«Che senso ha», spiega Codini, «la norma per cui il minore nato qui deve aver sempre vissuto in Italia? Se un?estate vai nel Paese d?origine dei genitori, corri il rischio di non poter più chiedere la cittadinanza. Il ministro Amato ha fatto una circolare perché la norma sia applicata con intelligenza. Ma non sarebbe più risolutivo chiedere che un ragazzo sia in regola con l?obbligo scolastico?». In questo modo si collegherebbero i due ambiti: l?uno si rafforzerebbe grazie all?altro.

«Analogamente occorre riflettere sui requisiti necessari per richiedere, da adulti, la cittadinanza. Un percorso molto lungo e pieno di incertezze e contraddizioni. Il reddito, per esempio, non dice nulla dell?integrazione sociale e politica che è fatta di molte componenti», prosegue Codini, «che andrebbero codificate». Certo: una tappa preliminare dovrebbe essere la conoscenza della lingua (come ipotizzava del resto il disegno di legge Amato). Ma una conoscenza non discrezionale: in quanti modi potrebbe essere interpretata la qualifica «adeguata»? Molto meglio affidarsi a standard di conoscenza scientificamente individuati. Un altro step da individuare, e da preparare anch?esso con incontri e corsi di formazione, è la conoscenza della cultura e delle leggi: «Anche qui però», avverte Codini, «bisogna intendersi: nessun test potrà dire quello che veramente pensa una persona. E pretendere di individuarlo si configura come un profilo arcano. Ci si deve limitare a chiedere che un aspirante cittadino conosca leggi e valori, sperando che il confronto aiuti un cammino che è anche di condivisione».

Quattro nodi critici della Bossi-Fini

  • Quote.

Fino a oggi non hanno corrisposto alle necessità. In occasione dell?ultimo decreto flussi sono state presentate 710mila domande. Solo 170mila hanno avuto un esito positivo; le restanti 540mila respinte sono ora oggetto di una richiesta di regolarizzazione da parte dei tre sindacati confederali (in corso una raccolta firme per l?appello, hein@cir-onlus.org).

  • Permesso di soggiorno.

Attualmente la sua validità è variabile in relazione al tipo di contratto di lavoro (se stagionale o a tempo determinato). Anche nel caso di un contratto a tempo indeterminato, il permesso di soggiorno dura massimo due anni. Si potrebbe allungare – almeno per quest?ultimo caso – la sua validità, anche per ridurre il numero di pratiche burocratiche.

  • Prima o poi?

Prima si ha il lavoro, poi si arriva in Italia. Beata speranza dei legislatori. Che non si è quasi mai verificata. Occorre invertire il ragionamento e prendere atto della realtà: uno straniero arriva nel nostro Paese con il desiderio di trovare un?occupazione. La chiamata nominale, infatti, sembra più conveniente per la manodopera estremamente qualificata o specializzata.

  • Ricongiungimento familiare.

Attualmente lo si può chidere per il coniuge, per i figli minorenni o maggiorenni e per i genitori purché a carico. Lo si ottiene dopo un iter estremamente complesso, burocratico, legato al reddito. Si sta ipotizzando di renderlo più rapido con lo stesso sistema informatico utilizzato per il decreto flussi.


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