Non profit

Questo pazzo mondo che affama i contadini

In Occidente come nei Paesi in via di sviluppo. Così un comparto è finito ko

di Maurizio Regosa

In un anno meno 26% il prezzo del grano e meno 24% quello del latte. Per il mondo agricolo è un crollo drammatico che mette a rischio il futuro Dimenticate le morbide fragranze di cui parla la pubblicità. Pensate al pane, semplicemente. A quel che serve per prepararlo. Al grano, innanzitutto, che i mercati valutano appena 14 centesimi al chilo e che a voi negli ultimi tempi è costato il 1.700% in più. Un balzo che la dice lunga sull’assedio e la condizione di marginalità dell’agricoltura. Italiana e non solo. Un comparto che un tempo era un settore primario e che oggi è considerato come una variabile di pochissimo conto. Del valore di pochi centesimi, appunto.

E la finanza incassa
«Negli ultimi venti anni i prezzi sono andati calando, mentre i consumatori hanno speso sempre di più», sintetizza Lorenzo Bazzana di Coldiretti. Se nel 1985 il grano costava 23 centesimi al chilo e il pane 52 centesimi, nel 2009 il grano è quotato circa 14 centesimi (- 26% solo rispetto allo scorso anno, dati Ismea) mentre il pane costa attorno ai 2,5 euro al chilo (media calcolata dall’Osservatorio prezzi e tariffe). Non è solo diminuzione degli utili. Come documenta una indagine condotta da Donato Romano dell’università di Firenze. Le entrate degli agricoltori sono scese, mentre i costi sono andati alle stelle (da quello dei carburanti a quello delle sementi). Il risultato è che ormai le imprese producono sottocosto. Un altro esempio? Il latte è venduto a 30 centesimi al litro (-24% rispetto al 1996), ma produrlo ne costa oltre 40. «C’è rabbia, disperazione, rassegnazione in campagna», commenta Maurizio Gardini, neo presidente di Fedagri-Confcooperative.
La bolla speculativa di due anni fa tra gennaio 2007 e febbraio 2008 fece alzare i prezzi dell’83% (stima Banca mondiale), colpendo – fra future, option e basis – anche le mega imprese agricole. Nei Paesi occidentali, Italia compresa, degenerò in una fortissima spinta inflazionistica; in quelli in via di sviluppo mise alla fame milioni di persone. Passata l’onda, sulla spiaggia è rimasto il corpo ansimante di un’agricoltura che non è più ancorata al territorio, di un cibo sempre più in balìa degli andamenti finanziari globali, di un consumo ormai dipendente dalle fluttuazioni di Borsa. Un fenomeno che accomuna Nord e Sud del mondo. E che marginalizza ulteriormente la produzione. A favore della finanza. Accade anche in questi giorni del resto. La denuncia è del Pime – Pontificio istituto missioni estere: a metà novembre il future sul prezzo del grano con scadenza marzo 2010 ha guadagnato il 2,9% alla Borsa di Chicago. In 50 giorni chi ha acquistato il titolo ha avuto un rendimento del 18% (e sono stati registrati 2 milioni di contratti di questo genere). Si capisce anche così perché Benedetto XVI al vertice Fao abbia sottolineato che «va scongiurato il rischio che il mondo rurale possa essere considerato, in maniera miope, come una realtà secondaria».
Un rischio per molti aspetti già diventato realtà. «Nel 1981, il 33% dei prestiti della Banca mondiale serviva a finanziare progetti agricoli», come spiega Luca Salvatici, dell’università del Molise. Che poi aggiunge: «Nel 2001 tale percentuale era scesa all’8%».

Come ripartire
Negli ultimi 40 anni, solo in Italia, «un territorio grande come due volte la Lombardia è stato sottratto all’agricoltura», spiega il professor Angelo Frascarelli, docente di Economia agraria a Perugia. E se le campagne vengono abbandonate, addio inversione di tendenza. «Occorre invece riposizionare il comparto, prima industria del Paese, al centro della politica», chiede Gardini. Non solo: «Bisogna anche avviare iniziative di sostegno, a partire dal fondo di solidarietà, dotandole però di copertura finanziaria». Quanto a nuovi progetti, «a breve creeremo una rete nazionale che unisca i punti vendita delle nostre 3.700 cooperative sotto un unico brand».
Dal canto suo sta muovendosi anche Coldiretti, che propone di rendere obbligatoria l’indicazione dell’origine del grano. L’associazione ha appena costituito l’holding Consorzi Agrari d’Italia (3 miliardi di fatturato, 1.300 punti vendita cui fanno riferimento 300mila imprese) e lavora per una filiera tutta italiana. «Uno strumento con il quale», chiarisce Mauro Tonello, a capo Unci-Coldiretti (Associazione delle cooperative agricole e di trasformazione agroindustriale aderenti all’Unci), «si tutelerà il risparmiatore, basandosi sulla trasparenza della filiera, sull’indicazione dell’origine in etichetta, sul legame del prodotto con il territorio».


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