Famiglia

Questo mondo ci sta sul Pil

Porto Alegre ha vinto la sua sfida. Ha saputo comunicare un’idea diversa di sviluppo. Comincia una stagione nuova?

di Marco Revelli

Forse ci voleva un posto così. Forse in un posto così non poteva che andare bene. Certo è che Porto Alegre sembra incorporare nella propria stessa storia e natura, nella propria natura storica, il significato dell?evento che ha ospitato.
Città fondata da emigranti (il primo gruppo consistente pare fosse costituito da cattolici tedeschi, da cui l?attuale soprannome di «città dei tedeschi», il secondo da agricoltori italiani), essa è giunta a contare tra i propri abitanti ben 51 etnie diverse, tra ebrei russi e polacchi, commercianti siriano-libanesi e persino cinesi sfuggiti al regime di Mao. Come tale è un esempio vivente di poliglottismo e di multiculturalità, esercizio continuo di convivenza tra i diversi, di mutua contaminazione e trasversalità, sposatisi, di recente, con quello straordinario strumento di incivilimento del paesaggio urbano che è la democrazia partecipativa sperimentata da un?amministrazione locale coraggiosa e intelligente, capace di praticare l?innovazione dal basso, di usare il municipio come luogo di produzione di relazioni tra gli uomini di rilievo e importanza globale.

La galassia vincente
Così Porto Alegre è stato quello che aveva promesso di essere: una grande prova di maturità per una galassia sociale in formazione chiamata a mostrare, in un contesto mondiale drammatico, l?esistenza di un?alternativa concreta e credibile al tracollo della politica globale degli Stati e dei governi, ai suoi silenzi colpevoli (sui mali del mondo) e ai suoi rumorosi guasti (la guerra globale appena incominciata).
Non era scontato che ci si riuscisse: che la variopinta, eterogenea, mobile e polifonica moltitudine globale lì confluita trovasse il modo per comunicare, priva com?è di un lessico uniforme, di leader foralizzati, di una qualche linea, oltre che di istituzioni. Non era scontato che si ?inventasse? un modo per far circolare il discorso, privi come si è di un ordine formalizzato del discorso e di apparati di disciplinamento. Non era per nulla detto che il potere della parola potesse dispiegarsi al di fuori e contro ogni discorso di potere.

Orizzonte plurale
Eppure è stato così. A leggerne le cronache, ad ascoltare i racconti di chi ci è stato, a osservarne in rete lo svilupparsi, s?intuisce che la grande macchina comunicativa ha funzionato, non solo, e non tanto, nelle assemblee plenarie, nelle grandi assemblee in cui si discutevano i documenti ufficiali, ma anche e soprattutto negli oltre 800 workshop, nei gruppi di discussione minori in cui quella folla si è scomposta e ricomposta, stabilendo nessi, legami, rapporti, cambiandosi a vicenda, al di là delle delegazioni, delle lingue nazionali, dei rispettivi fondamenti culturali, in una pratica attiva di ?comunicazione-mondo?.
E questo è il primo, enorme risultato che il popolo di Seattle, cresciuto, fattosi certo delle proprie ragioni, e maturo, porta a casa. Oggi sa che non ha bisogno degli antichi ingredienti burocratici e centralistici, dell?estenuata forma – partito novecentesca, dei comitati centrali e dei vari centralismi più o meno democratici, per esserci.
Anzi, che tanto più ci sarà come realtà globale, quanto più abbandonerà quei modelli e sceglierà questo, orizzontale, libero, pluralistico, discorsivo?
Il secondo risultato è l?agenda. Con calma, pacatezza, lucidità a Porto Alegre è stata stilata la lista delle grandi questioni globali aperte, vista ?dal basso?, da chi sta al fondo della piramide (il Sud, i poveri, i penalizzati dal grande Casinò, chi le bombe le riceve anziché sganciarle, chi l?acqua la vede estinguersi) e descritte con il linguaggio chiaro della ragione (non con quello delle «magniloquenti dichiarazioni con cui si concludono i vertici dei governi», come ha detto il segretario di Mani Tese).

I globalizzatori di NY
Una lista che nessun vertice globale, per reticente che sia, potrà più ignorare (evidente l?imbarazzo con cui a New York i ?globalizzatori dall?alto? hanno raffazzonato richiami alla solidarietà e promesse per gli ultimi). E anche questo è un segno, come dire?, di egemonia culturale: di capacità cioè di porsi a un livello più alto di universalità e di forza propositiva rispetto al proprio avversario.
La dimostrazione che i signori del G8, gli uomini d?oro della sovranità globale, sono delegittimati, e che davvero c?è chi lavora credibilmente per un altro, possibile mondo. Un mondo, è fondamentale ricordarlo, che non solo non potrà non essere pacifico, ma che, soprattutto, non potrà che essere costruito pacificamente, sulla base di un?intransigente e inequivocabile messa al bando della guerra e della violenza, come testimonia il quarto punto del documento finale.

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