Volontariato

Questo è razzismo in nome della legge

Procedure inventate, documenti aggiuntivi, cavilli burocratici ignoti agli italiani. È il razzismo istituzionale, con cui il nostro Stato penalizza gli extracomunitari. E nessuno può farci niente. L

di Gabriella Meroni

Anche in Italia esistono delle leggi speciali. Leggi razziste, che penalizzano gli extracomunitari, negando loro diritti fondamentali. Ma è inutile cercarle nei codici del diritto: le norme discriminatorie in vigore in Italia sono leggi non scritte, risultato di circolari contraddittorie, norme confuse, o, peggio, dell?ignoranza o della malafede degli apparati dello stato. È il razzismo istituzionale, l?ultimo nemico da battere per una società dal futuro multietnico, e anche il più subdolo, perché difficilmente individuabile. Anche se ha già fatto molte vittime. La denuncia, corredata da una serie impressionante di casi reali, arriva dal Telefono Mondo di Milano, un servizio di consulenza per stranieri (risponde allo 02/70602060), che ha ricevuto nel ?97 più di 1700 segnalazioni di cittadini extracomunitari su piccoli e grandi abusi della burocrazia. Tutti perfettamente legali. Telefono Mondo li ha raccolti in un dossier. Provando a immaginare cosa cambierebbe con la nuova legge sull?immigrazione, appena approvata. E aggiungendo un tassello alla fotografia dell?immigrazione in Italia fornita dal dossier Caritas, tanto più prezioso ora che, fatta la legge, si attendono i regolamenti attuativi, con cui si potrebbero migliorare o sanare almeno in parte i problemi che Telefono Mondo ha evidenziato con tanta precisione. «La nuova legge contiene un articolo interessante, il 41», dice Cristina Calzolari, curatrice del rapporto, «che prevede per la prima volta in Italia il reato di discriminazione razziale. Ma quando la discriminazione avviene in nome della legge, punire i responsabili diventa molto difficile, se non impossibile». Qualche esempio? Zeinab è una ragazza eritrea arrivata in Italia con un visto per lavoro domestico. Lavora per un anno a Roma, assunta come colf, poi è licenziata. Si trasferisce a Milano e va in questura per il cambio di residenza. Una pratica normale per un italiano, per Zenaib un desiderio irrealizzabile. In questura le rispondono che visto che mancano tre mesi alla scadenza del permesso di soggiorno, deve aspettare e fare il cambio di residenza insieme al rinnovo. «Ecco la prima discriminazione», dice Michela Intra, avvocato e collega di Cristina. «La legge dice che il permesso di soggiorno deve essere rinnovato entro 8 giorni dalla richiesta, e nessun regolamento stabilisce che rinnovo del permesso e cambio di residenza vadano fatti insieme». Spesso la discriminazione è frutto dell?ignoranza dei funzionari pubblici, che seguono procedure non più in uso o ?inventate? da singole amministrazioni, oppure, nei casi più gravi, interviene la malafede: vengono cioè richiesti a stranieri documenti aggiuntivi o diversi da quelli necessari per un italiano. Altro esempio. Elizabeth, nigeriana, raggiunge il marito, regolarmente assunto, in un paese della provincia di Foggia. Con il permesso di soggiorno per famiglia, Elizabeth va alla Usl per iscriversi al Servizio Sanitario, e le richiedono il certificato di residenza. Elizabeth e il marito vanno allora in comune per iscriversi all?anagrafe, ma la condizione che viene posta è che la signora risieda nel territorio comunale da almeno un anno. Una prassi cui anche il marito prima di lei aveva dovuto sottostare, ma che non è assolutamente prevista per gli italiani. «La residenza è indispensabile per accedere a cure mediche, servizi sociali, banche» commenta Cristina Calzolari. «La legge in questo senso è aperta, non fa differenze per uno straniero che risieda qui abitualmente. Anche un permesso per turismo basta per ottenere la residenza. Eppure nella pratica si escogitano mille ostacoli. Il più scandaloso consiste nel non riconoscere come dimora i centri di accoglienza o le comunità alloggio». Insieme a quello anagrafico, è il fronte del lavoro a registrare le contraddizioni più evidenti. Farida è un?egiziana titolare, con il marito, di una piccola impresa di pulizie. Ha sempre pagato le tasse e fatto tutto come si deve. Ma al momento di rinnovare il permesso di soggiorno non riesce a ottenere quello per lavoro autonomo, perché non esiste la reciprocità tra Italia e Egitto per attività di pulizie. Il marito deve lasciarla sola alla guida dell?impresa e farsi assumere da una ditta per mantenere la famiglia, lei vive nel terrore di essere scoperta e espulsa. «Qui si evidenzia un altro problema», spiega ancora Cristina Calzolari, «la norma per cui un permesso di soggiorno è valido solo per il motivo per cui è stato rilasciato, quindi se una persona ha il permesso di fare il panettiere non può fare altro nella vita, così come con un permesso per lavoro autonomo non si può essere assunti». Una limitazione che diventa clamorosa nel caso dei soci lavoratori di cooperative: questi, pur ricevendo busta paga e contributi previdenziali, sono considerati dal ministero del Lavoro alla stregua di autonomi. Ora, un extracomunitario con permesso di soggiorno per lavoro dipendente non può essere assunto da una cooperativa, ma se ha un permesso per lavoro autonomo occorre che esista il principio di reciprocità (un accordo bilaterale per il libero svolgimento di quella specifica attività) tra l?Italia e il suo Paese d?origine. Inutile dire che accordi di questo tipo sono rarissimi. Ultima chicca: il ministero del Lavoro ha previsto programmi per l?occupazione degli immigrati che mettono al primo posto (indovinate un po??) proprio le cooperative. La nuova legge contribuirà a risolvere questi problemi? Per il momento, pare di no (vedi box). Ma molto può essere fatto attraverso i regolamenti attuativi, che dovranno tradurre i principi in realtà. Riusciranno a eliminare il razzismo dalle istituzioni?


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