Famiglia

Questo asilo è ben più che un nido

Oggi quasi due milioni di bambini sono tagliati fuori da questo servizio. Così si penalizza il lavoro femminile, non si aiuta la mobilità sociale e non si fa crescere il Paese.

di Maurizio Regosa

Gli esclusi sono quasi il 90%. Una situazione che penalizza la stragrande maggioranza dei bimbi italiani e delle loro famiglie, spesso costrette a ricorrere alle cosiddette ?soluzioni alternative?. I dati parlano fin troppo chiaro: l?offerta del Belpaese, che si aggira attorno all?11,4% (ma in alcune regioni del Sud scende al 5%), è drammaticamente lontana dal 33% fissato dall?Agenda di Lisbona per il 2010 (praticamente dopodomani) e distante anche da Paesi come la Danimarca (il 50% dei bimbi ha il ?suo? asilo nido) e Francia (il 35-40%). Come se non bastasse, da noi i servizi hanno orari piuttosto rigidi e le famiglie, che ?godono? di laute detrazioni di circa 120 euro l?anno, si fanno carico del 20% della spesa complessiva (contro il 10 per esempio di quelle inglesi). Il risultato di tale assenza di visione strategica? Meno figli (una media fra le più basse del mondo), minor occupazione femminile (secondo l?Ocse, il 43% delle italiane non ha un?occupazione a causa degli impegni di cura ed assistenza), una sempre più ridotta mobilità sociale e, come dicono le statistiche, la mancata diminuzione dei numeri di aborti da parte di donne con due o tre figli, che fanno questa scelta per motivi economici. Senza contare la sperequazione fortissima, aggiunge Gianpiero Dalla Zuanna, demografo dell?università di Padova, «tra chi è riuscito a far entrare i figli al nido e chi no. I primi ricevono un aiuto che è di fatto negato ai secondi». In sintesi, un futuro con il freno a mano. Tutte le ricerche sottolineano il mortificante legame fra numero dei figli e povertà della famiglia. «Persino il titolo di studio», prosegue Dalla Zuanna, «è correlato al numero dei fratelli». Come a dire, diverrò quel che mi sarà, oggi, consentito di diventare. Scusate se è poco.

Gli asili, in agenda
Per contrastare la povertà dei nuclei con più figli, «la leva fiscale non è sufficiente: serve il doppio stipendio», aggiunge Alessandro Rosina della Cattolica di Milano, «necessario anche in termini di sviluppo complessivo del Paese. L?occupazione femminile, che è sotto al 50%, è essenziale per l?equilibrio fra quanti non sono più attivi e quanti lavorano. E le donne che lavorano fanno anche più figli». Il cerchio, per dir così, si chiude.Degli asili (e del loro ruolo per la conciliazione fra lavoro e famiglia) si sono accorti anche i partiti in corsa. Nel programma dell?uno come dell?altro schieramento, cenni espliciti fanno un capolino più o meno ampio. Mentre il Popolo della libertà auspica la «prosecuzione del piano d?investimento in asili aziendali e sociali, attraverso fondi pubblici e detassazioni», i Democratici sottolineano che «deve diventare un servizio universale, disponibile per chiunque ne abbia bisogno». C?è da augurarsi che dietro queste formule rassicuranti ci sia vera convinzione. E autentica volontà politica. Le risorse necessarie non sarebbero nemmeno stellari. Secondo Cristiano Gori dell?università di Milano, «si tratterebbe di incrementare di 700 milioni l?anno la spesa complessiva attuale, ferma a circa 833 milioni, dati Istat». Non briciole, certo, ma nemmeno somme enormi rispetto al bilancio dello Stato (fra Finanziaria e tesoretto sono stati messi sul tappeto 31 miliardi). Per colmare questo ritardo, servono «interventi incisivi, importanti ma soprattutto coerenti. La Finanziaria 2007 ha fatto qualche passo nella direzione giusta, ma quella del 2008 è stata troppo timida», fa notare Rosina che aggiunge: «Le politiche una tantum non hanno senso e non aiutano le giovani coppie a sentire che la collettività è loro vicina perché considera un figlio un valore sociale importante».

Gli strumenti
Avere più servizi soprattutto per le famiglie con almeno due figli e un reddito medio-basso (le più esposte al rischio povertà), potrebbe agevolare la crescita demografica. Ma forse è necessario fare uno sforzo ulteriore: un asilo è utile se risponde veramente alle necessità, in termini di orari, di flessibilità, oltre che di qualità delle prestazioni. È il famoso welfare comunitario di cui tanto si parla (e che potrebbe garantire costi più contenuti e soddisfazione più alta). Ma il cammino sembra ancora lungo e non decisamente intrapreso. L?impressione che i programmi elettorali ancora suggeriscono è che la scelta sia in sostanza ancora fra l?aumento dell?offerta e il sostegno della domanda. Un?alternativa importante, rispetto alla quale forse sarebbero opportune decisioni preliminari. «Le possibilità offerte dal terzo settore non sono ancora considerate veramente come una terza via, non c?è da noi, come ad esempio in Gran Bretagna, un piano specifico di sostegno a questo modello economico», spiega Claudia Fiaschi, vicepresidente di Cgm. E il risultato è che il privato sociale «è spesso considerato in modo opportunistico dagli enti locali, perché gestisce servizi a prezzi più bassi». Viceversa occorrerebbe ragionare di qualità – come ha fatto la rete d?imprese sociali Pan (250 asili per 6.500 posti creati in 3 anni), che ha condiviso standard e costi mettendo buone premesse allo sviluppo di livelli uniformi dei servizi. Un nuovo rapporto con il privato sociale. Una partnership più progettuale. Il rovesciamento di prospettiva che faccia comprendere che i servizi possono promuovere sviluppo e non solo assorbire risorse. «Secondo la nostra esperienza», prosegue Fiaschi, «è possibile costruire un welfare che sappia portare avanti politiche integrate a tutti i livelli, non consumando risorse, ma rigenerandole».

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