I GIUSTI TURCHI CHE HANNO
SALVATO GLI ARMENI
«La riuscita della pulizia etnica dipendeva dalla fedeltà di tali funzionari», spiega Kévorkian. «Ma l’adesione all’apparato oppressivo non è mai totalmente compatta. C’è sempre qualche disobbediente». Uno fra tutti, il sindaco di Malatia, Mustafa Aghà Azizoglu, che cercò di fermare i massacri e nascose in casa oltre 40 armeni. Fu rimosso e ucciso da uno dei suoi stessi figli, militante nel partito dei Giovani Turchi. O, ancora, Ali Souad Bey, prefetto turco di Deir-es-Zor, luogo di raccolta degli armeni prima della deportazione nel deserto (1915-1916), noto come il «governatore buono», per il tentativo di salvare il maggior numero di sventurati. Nei campi di transito organizzò strutture necessarie alla loro sopravvivenza e alla cura dei più deboli: fece proteggere gli insediamenti dagli attacchi dei predoni arabi, costruì un grande ospedale, edificò un intero quartiere per ospitare i profughi e un ponte sul fiume Eufrate per impiegare manodopera armena da sottrarre alla deportazione. La sua stessa abitazione privata divenne un rifugio per i piccoli armeni rimasti orfani. Quando le autorità turche di Aleppo gli intimarono di attenersi agli ordini di epurazione, rispose: «Se lo scopo è massacrarli, io non posso farlo e nemmeno permettere che altri lo facciano». Una risposta che pagò con la deportazione e, secondo alcuni, con la morte.
I GIUSTI NEL
GROVIGLIO JUGOSLAVO
A raccontare la storia di questo condominio “giusto”, dove gli inquilini ancora oggi hanno il vizio di aiutarsi l’un l’altro, è la neurochirurga Svetlana Broz, nipote del generale Tito e presidente di Gariwo Sarajevo. Fra il 92 e il 95 ha girato gli ospedali bosniaci per portare soccorso alle vittime del conflitto. E inaspettatamente ha ricevuto in cambio molto di più: testimonianze di coraggio civile, di aiuto traversale fra le diverse etnie in guerra, che ha raccolto nel volume I Giusti nel tempo del male. Testimonianze dal conflitto bosniaco (Ed. Erickson). Fra queste, quella di Nura Mehmedbegovic, musulmana bosniaca malata di tumore al cervello. Durante l’assedio di Sarajevo, il suo medico curante, il croato Marko Cigler, “Jepek” Marko (padre Marko) come lo chiama lei, non se la sente di lasciarla sola senza assistenza e senza le iniezioni giornaliere che la tengono in vita. La ospita in casa sua e quando la donna ha bisogno di cure ospedaliere ne organizza lo spostamento in una zona sicura della città. Il trasferimento però non deve essere definitivo: i soldati serbi minacciano il medico di decapitazione qualora Nura, dopo i ricoveri, si fosse rifiutata di tornare alla sua abitazione.
Ma “Jepek” Marko non si lascia intimorire. E neppure lei, che affrontando il rischio di deportazione torna sempre senza esitare nella parte di città dilaniata dal conflitto: «Anche se sapessi con certezza di andare incontro alla morte continuerei per la stessa strada, con l’anima in pace, senza paura, cosciente che sto facendo una cosa che quell’uomo merita: la vita per la vita, l’umanità per l’umanità», ha detto alla Broz.
È quella stessa compassione che ha salvato le sorti di Hamid Dedovic, musulmano bosniaco di Ilidza, che allo scoppiare del conflitto rifiuta di abbandonare il suo paese, convinto che la situazione non possa volgere al peggio. Sottovaluta la situazione: un giorno sei miliziani entrano in casa sua e, dopo aver picchiato la famiglia e una vicina intervenuta in loro difesa, lo portano nel luogo delle torture e delle esecuzioni. È l’amico serbo Bora a salvarlo da morte certa, offrendosi al suo posto come bersaglio. Hamid viene rilasciato e supererà incolume il conflitto grazie ai serbi di Buca Potok, località dove fuggendo trova riparo.
QUELLE STORIE SCONOsCIUTE DI EBREI SALVATI IN NORD AFRICA
Quanto è accaduto nel Nord Africa durante l’Olocausto è rimasto fino ad oggi coperto dalla sabbia del deserto malgrado migliaia di ebrei siano stati espropriati dei loro beni, siano stati imprigionati nei campi di lavoro, siano stati deportati nei campi di sterminio in Europa.
«Ho scritto questo libro per riportare alla luce quello che abbiamo collettivamente dimenticato», spiega a Vita Satloff, anche lui presente al convegno sui Giusti organizzato a Milano. «L’ho scritto per creare una piattaforma per quegli uomini e donne di buona volontà nel mondo arabo affinché parlino dell’Olocausto. Oggi gli arabi non si sentono toccati dall’apprendere cos’è stato l’Olocausto. Sono esclusi dal dibattito sul genocidio e sulla sua lezione. E non parlano neppure degli altri genocidi, quello in Darfur e quello dei curdi. Ma il mio messaggio è anche per gli europei. Ho la sensazione che gli europei non abbiano il senso dell’enormità di quello che è successo. Oggi la discussione sull’Olocausto è troppo politicizzata e tende a dividere le persone. Ma soprattutto, in questa discussione, prevale il discorso e il linguaggio degli ignoranti. E la politica ha adottato il discorso degli ignoranti».
È naturale domandare a Satloff cosa insegnino queste storie davanti a quel che è accaduto a Gaza. Ecco cosa risponde: «La politica di Hamas non ha generato né successi politici né miglioramenti per le condizioni di vita dei palestinesi. I cittadini di Gaza non hanno responsabilità. Ma ci tengo anche a dire che Israele viene tenuta sempre sotto osservazione speciale da parte dei gruppi che difendono i diritti umani. C’è una fissazione nei confronti dei misfatti di Israele ma si chiude un occhio sulle tragedie in Zimbabwe o sulle violazioni dei diritti umani in Iran».
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