Welfare

Queste carceri, una follia

Detenuti incapaci di intendere e di volere, che andrebbero seguiti da medici e non rinchiusi in prigioni come quella di Montelupo. Luoghi anticostituzionali anche per il direttore dei penitenziari,

di Cristina Giudici

Fuori è una villa medicea d?impressionante bellezza, sorta sulle lievi pendenze di Montelupo Fiorentino, fra Pisa e Firenze, ma dentro, dentro è solo il silenzio. Fuori è la bella, ma decadente villa che appartenne ai Medici e poi al granduca Leopoldo, ma dentro, dentro è un manicomio criminale, l?Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo fiorentino. Dentro ospita gli ultimi criminali. Nel primo fabbricato, la terza sezione, ci sono quelli in osservazione, quelli che impazziscono in carcere, o che creano disturbi nelle sezioni. Doppio corridoio per aumentare la sorveglianza di notte e impedire i suicidi, letti di contenzione per le crisi acute. Sono quelli che arrivano qui per un rapporto disciplinare e il diktat di un magistrato di sorveglianza. Nessuno si affaccia, nessuno vuole mostrare il volto. Solo un trans che si avvicina alla porta della cella, forse più abituato a stare sulla scena. Gli altri camminano dentro le loro gabbie, agitati, indispettiti forse perché non vogliono essere osservati. E non pronunciano una sola parola. Del resto non c?è nulla da spiegare. Per la legge non sono criminali, perché al momento del ?fattaccio? non erano in grado di intendere e di volere. E secondo il codice penale sono soggetti a una misura di sicurezza che va dai 5 ai 10 anni, ma che può essere prorogata alll?infinito. Sono socialmente pericolosi, ma la maggior parte viene internato per reati di piccolo conto, un?infrazione, un offesa al vigile. Così c?è Gerardo, internato per un furto di caramelle, che al momento di rubarle non era in grado di intendere e di volere. C?è Sandro, che ha commesso un furto senza capire bene cosa stava facendo ed è tornato. E c?è anche Marco, psicotico, che ha ucciso la nonna e poi la moglie, ma non se ne vuole ricordare. A Montelupo Fiorentino sono 140, e in tutt?Italia 1074. Briciole di uomini ridotti al silenzio dal trattamento manicomiale, dalle medicine e dagli spessi muri di un carcere che lo stesso direttore sanitario, Franco Scarpa, spera di chiudere. Nessuno vuole più stare qui a dover legare persone che dovrebbero essere seguite da medici, e a scarcerare mafiosi che per farla franca cercano di essere internati nei carceri-manicomi. Qui tutti si ricordano di aver fatto il diavolo a quattro per purgare l?istituto dai collaboratori di giustizia negli anni ?80. E oggi nessuno vuole continuare a vigilare questa roccaforte di silenzio. Né il direttore e neanche l?ispettore della polizia penitenziaria che si aggira nelle sezioni come un padre senza speranza. Nell?altro fabbricato, dove le celle sono sempre aperte e vige una custodia più attenuata, nessuno fa rumore. Neanche qui. Non è come in un carcere normale dove il rumore è assordante. La maggior parte, qui, sono vecchi, vanno via per ritornare di nuovo grazie a misure di sicurezza sempre prorogate. Muoiono qui, qualche volta. L?anno scorso è toccato a un malato di Aids. Il signor Mario fa notare all?ispettore che lui ogni giorno ridipinge di bianco i muri della sezione, ma qualcuno continua a riempirli di scritte. L?ispettore fa finta di vederle, le scritte, e gli dice: «Non preoccuparti, ci penso io». Ma nessuno può fare proprio niente. Anche aprire le celle non serve, neanche assumere infermieri invece di poliziotti, come ha già fatto Alessandro Margara, il direttore generale degli istituti di pena. Non serve che qui entrino i volontari e che gli obbiettori portino fuori in permesso alcuni internati.Perché loro, gli ultimi criminali, sono cittadini del nulla. Sono solo poco più di mille, per i quali restano in piedi sei carceri-manicomi che hanno resistito a tutto. Bisogna chiudere, mandarli via, a casa, negli ospedali, fra la gente normale. Perciò Margara ha scritto un disegno di legge. Per rompere il silenzio che dura dal Codice Rocco. «Caro Dio, scrivo a te queste poche righe perché finora ho scritto al direttore dei manicomi, ai giudici, agli avvocati e ai vescovi, ai giornali ai procuratori, a mio cugino, ma nessuno mi ha risposto ancora. Rispondimi almeno tu». Così ha scritto uno dei detenuti. Speriamo che Dio lo ascolti.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA