Welfare

Questa galera insegna più di una scuola

Condannato per omicidio, ora è maestro a Rebibbia

di Cristina Giudici

I volontari in carcere sono sempre più numerosi. Lo afferma il ministero di Grazia e Giustizia che recentemente ha firmato un protocollo d?intesa con la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (si veda box) e lo affermano le storie, le testimonianze, i racconti delle persone che continuano ad arrivare dai penitenziari d?Italia. Aumentano i volontari per scelta, che hanno trovato nel carcere uno strumento per una battaglia di civiltà e di democrazia, e aumentano i volontari per caso che hanno sofferto sulla propria pelle i ritardi, le grottesche incoerenze di un sistema rimasto fermo a vent?anni fa e hanno deciso di battersi per cambiarlo. Come Roberto Boiardi, ex giornalista de ?Il Popolo? che oggi lavora al Gisca, Gruppo italiano Scuola Carceraria, un?associazione che studia, sostiene e promuove l?educazione in carcere.
Sarà perché Roberto Boiardi, che oggi ha 37 anni e davanti una vita tutta da ricostruire, in carcere si è salvato grazie alla scuola. Sarà perché, mentre la sua vita affondava sotto il peso di un castello giudiziario, lui ha scoperto il sentimento della gratitudine.

All?inferno in giacca e cravatta
Per i suoi compagni di cella e per i detenuti che vedeva sedersi per la prima volta sui banchi di scuola e giorno dopo giorno imparavano ad alzare la testa, a pensare, a guardare oltre quel pezzo di mondo recluso, fatto di piccole e grandi violenze, ricatti, attese e vendette.
Sarà per quei piccoli gesti di solidarietà quotidiani che ha scoperto in fondo al pozzo, dentro una cella, che lo hanno aiutato a sopravvivere senza perdere la speranza. Ma oggi Roberto Boiardi, ex giornalista in carriera, ex militante della Democrazia Cristiana, ex consulente finanziario, è un volontario a tempo pieno. Perché ha passato nove mesi in carcere e non ha più voluto dimenticare. «Quando sono entrato dentro, ho detto a me stesso per farmi forza: Roberto, stai andando in caserma, anzi no, in collegio. Passerà presto, non soccombere», racconta Boiardi. «E quando le porte blindate si sono chiuse dietro di me, ho vinto la tentazione di voltarmi a guardare indietro. Ho continuato a camminare dritto. Sono entrato vestito con giacca e cravatta e una valigietta 24 ore. Poi ho visto le grate, le persone che c?erano dietro, ho sentito le loro urla e ho capito che quello era un inferno». Ma non si è scoraggiato. Così, dopo nove anni passati dentro i tribunali per affermare la propria innocenza, per dimostrare che il magistrato si stava accanendo contro di lui, che si stava creando un altro caso Tortora, uno dei ventimila errori giudiziari che ogni anno si consumano senza ritegno nei tribunali italiani, e soprattutto per dire che quel giorno di ottobre del 1990, aveva sparato ed ucciso un uomo per legittima difesa il quale lo aveva prima minacciato, picchiato e infine accoltellato, Roberto Boiardi è arrivato a Rebibbia ed è diventato un detenuto qualunque. Nel novembre del 1997. «I miei compagni di cella mi hanno insegnato a sopravvivere», dice con accento romanesco, ridendo. «Così ho imparato a sfruttare ogni piccolo spazio, a fare della carta igienica dei portapenne, delle scatole Buitoni dei contenitori di forchette, dei lacci delle scarpe dei tiranti per la tenda separé fra il water e la branda.
Ma soprattutto ho imparato a combattere la battaglia contro il tempo. Nell?arco di una settimana mi sono iscritto alle scuole elementare e media come auditore, ai corsi di canto, chitarra e recitazione. Scrivevo telegrammi, lettere d?amore per i detenuti, facevo ripetizioni a quelli che facevano fatica a scuola, aiutavo come potevo gli extracomunitari, insomma ero diventato l?amicone di tutti. La mia cella stava al secondo piano ed è stata ribattezzata la ?bolgia?, perché era come stare in un pub. Guardie, detenuti, di tutte le età e le specie, le razze. Un casino. E intanto rimanevo vivo».

La Dc, i premi giornalistici. Poi quegli spari…
Roberto Boiardi aveva 28 anni, quando un romano, un po? coatto, venditore ambulante di fiori, è entrato in trattativa con lui per comprare la sua casa. L?accordo non è mai stato fatto perché il compratore si è presentato un giorno a casa sua per chiedergli i soldi indietro e lo ha aggredito. Dopo le prime coltellate sono partiti gli spari e il fiorista è crollato a terra. È morto sull’autoambulanza, mentre veniva trasportato in ospedale «E così anche la mia vita è crollata», ricorda Boiardi. «Avevo il porto d?armi perché sono stato un militante della Democrazia Cristiana, a metà degli anni ?80. Erano ancora gli anni di piombo. Io stavo con gli sbardelliani, curavo le relazioni esterne di alcuni deputati della D.C., ricevevamo continue minacce. In quartiere cercavamo di fare degli accordi con i giovani militanti dell?Msi e ci sentivamo sotto tiro. Ma nel 1990 la mia vita era all?apice. Avevo un impiego al quotidiano Il Popolo, avevo vinto due premi giornalistici per alcune inchieste su argomenti di taglio economico.
Stavo per raccogliere ciò che avevo seminato per anni, facendo la gavetta. Poi un giorno, senza un motivo, è arrivata la fine. Lui mi ha aggredito, pugnalandomi, e io ho sparato, senza quasi rendermene conto e così mi sono ritrovato con un cadavere. Al primo processo sono stato assolto. Il Pm ha impugnato la sentenza e al secondo grado sono stato condannato a quindici anni di carcere. Così è iniziato il mio viaggio nel Castello di Kafka.
Un magistrato che non dimenticherò mai, era piccolo, brutto, incattivito dalla vita e fumava sempre, si era convinto che io ero colpevole. Ed è iniziato il palleggio fra un tribunale e l?altro. Un giudice mi condannava, la Corte di Cassazione annullava, il Tribunale della Libertà dava ragione all?accusa e ogni volta si ricominciava da capo. Al terzo grado ho preso dodici anni e mi sono costituito». A sei mesi dall?aggressione, Boiardi aveva già perso tutto: lavoro, amici, credibilità. «Ho continuato a lavorare per conto terzi, come consulente di comunicazione durante le campagne elettorali, ma ero già agli sgoccioli. Piano piano, pezzo per pezzo, la mia vita è affondata e io mi sono ammalato. La chiamano Sindrome di Sleepapnea: mi si chiudono i polmoni e smetto di respirare. Perciò ogni notte devo attaccarmi a un macchina respiratoria». Dopo nove mesi di carcere Roberto Boiardi, oggi padre di un bambino di cinque anni, Eraldo, è stato scarcerato per motivi di salute e oggi sogna di ottenere la revisione del processo, nella speranza di essere liberato dall?onta della colpevolezza, nella certezza di essere innocente e di meritare un riconoscimento. Ha ripreso a lavorare, ma il carcere è diventato il motore della sua esistenza.
«Quando sono uscito ero felice di tornare a casa, dalla mia famiglia che non mi ha mai abbandonato, ma ero triste per tutti quelli che rimanevano. Ero triste per tutto ciò che avevo ricevuto in dono, da degli sconosciuti che erano stati per me amici preziosi. Ero triste perché io, che per tutta la vita avevo lavorato nelle banche, nei giornali, alla Borsa Valori di Milano, frequentando master di economia, vincendo borse di studio all?estero, in Francia e ad Amsterdam, ero sceso in fondo al pozzo e avevo scoperto cose incredibili». Per esempio ha incontrato un anziano insegnate, Angelo Ruggieri, presidente dell?associazione Gisca, un maestro che aveva insegnato a leggere e scrivere ai membri della banda del bandito Salvatore Giuliano e da allora non aveva più abbandonato i detenuti.

Il patto con l?anziano maestro
Così Roberto Boiardi, detenuto di Rebibbia, ha trascinato sui banchi di scuola persone analfabete, che non avevano mai frequentato la scuola elementare. Ha cercato di promuovere, da detenuto, l?educazione in carcere. «Per me studiare, qualsiasi cosa, o leggere, qualsiasi testo, è stata la salvezza, ma per altri lì dentro forse è stato l?inizio di una nuova vita. O almeno mi piace pensarlo».
Come Giovanni che non aveva mai frequentato la scuola elementare e un anno dopo scriveva alla propria insegnante testualmente: «Carissima maestra, prima di conoscerla io non volevo venire a scuola poi lei mi ha parlato e io l?ho guardata negli occhi. In quel momento ho capito che a scuola potevo imparare delle cose e allo stesso tempo ricevere un appoggio morale e umanitario. Da oggi sono convinto che quando mi sentirò un po? giù, verrò da lei perché so che la signora maestra può capire un ragazzo che ha bisogno di una parola amica». Firmato Giovanni. Ma il sodalizio fra il giovane ex giornalista e l?anziano maestro non si è fermato al carcere. Nell?agosto del 1998, Boiardi ha ottenuto la sospensione pena perché, a causa dei suoi problemi respiratori, era in pericolo di vita. Ma, una volta che i cancelli si sono richiusi dietro le sue spalle, si è guardato indietro e ha fatto una promessa: non dimenticarsi di chi, colpevole e innocente, è rimasto dentro.

Gli amici dei detenuti

Numero volontari
autorizzati dal ministero 1.139

Numero volontari
spontanei 16.724

Numero di associazioni
che si occupano di carcere 473

Numero corsi scolastici 369

Detenuti iscritti ai corsi 8.283

Fonte: Ministero di Grazia e Giustizia e Fivol 1999

Nessuno ti regala niente, noi sì

Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.