Famiglia

Quelli che cercano la “mamma bio”

Complici i social network, sempre più persone nel mondo si mettono alla ricerca delle loro madri biologiche o, viceversa dei figli dati in adozione. Intervista con Ramona Parenzan, che ha raccolto alcune storie di figli, madri biologiche e genitori adottivi nel libro "I colori del vuoto". A cominciare dalla sua

di Sara De Carli

In Francia fin dal 2002 esiste il Consiglio Nazionale per l’accesso alle origini, che l’anno scorso ha ricevuto 733 domande. Nel Regno Unito già nel 2010 Eileen Fursland pubblicò “Faccia a faccia con Facebook: manuale di sopravvivenza per le famiglie adottive”, da poco tradotto anche in Italia dall’Arai, l’ente autorizzato della Regione Piemonte, che la scorsa primavera ha dedicato al tema un grande convegno. Nel mondo si stima che il 50% degli adottati adulti vada in cerca delle proprie origini e se negli anni ‘70 la sensibilità e le leggi tutelavano universalmente la segretezza, oggi le posizioni sono quasi ribaltate. Oggi la legge prevede che al compimento dei 25 anni i figli, facendo richiesta al Tribunale dei minorenni, può accedere alle notizie riguardanti i suoi genitori biologici: unica eccezione è la madre che sceglie di partorire in anonimato, ma nel 2013 una sentenza della Corte Costituzionale ha rimesso in discussione anche questo concetto e oggi si ipotizza la possibilità da parte di un giudice di interpellare la madre biologica nel caso in cui un figlio la cerchi, dandole la possibilità di ripensare la sua scelta di anonimato: un tema delicato e controverso.

Nei fatti, in generale, non esistono in Italia prassi operative consolidate né specifici servizi di supporto, benché praticamente non vi sia ente autorizzato né associazione familiare che non abbia visto storie di ragazzi che hanno fatto il percorso di ricerca delle proprie origini biologiche. «Gli adolescenti di oggi sono molto più interessati alla ricerca della famiglia d’origine. La generazione di chi oggi ha 40 anni è passata quasi indenne attraverso la questione, oggi ha figli, ha risolto per altre vie la propria “identità biologica”. Ma per gli adolescenti di oggi non è così», riflette Gianfranco Arnoletti, presidente del Cifa. Un’urgenza che ha portato il Ciai a presentare uno Sportello di consulenza psicologica e giuridica per la ricerca della famiglia d’origine: è il primo servizio strutturato in materia, attivo a Milano, Padova, Firenze e Pistoia. Da gennaio 2016 sarà affiancato anche da percorsi di gruppo per genitori adottivi e figli adottivi adulti che abbiano già avuto un contatto con i familiari d’origine.

Ma cosa prova una persona che non conosce il volto né il nome di sua madre? Alcune storie sono state appena raccolte nel libro “I colori del vuoto” (liberedizioni) da Ramona Parenzan, esperta di intercultura, anche lei adottata, che sognava «una madre biologica che somigliasse a Simone Weil». Ramona, già autrice del libro Babel Hotel sul condominio multietnico di Senigallia, ha scritto anche alcune fiabe sull’adozione che usciranno a fine gennaio – «fiabe problematiche, vere, non le solite cose sdolcinate che si leggono sull’adozione» – e insieme al regista Giorgio Cingolani sta lavorando per trasformare I colori del vuoto in un film (qui il progetto di crowdfunding).

Ramona, partirei dalla tua storia: cosa ti ha mosso ad avviare questa ricerca?
Intanto quando finalmente prendi coraggio e decidi di metterti alla ricerca succede che tu esci da una nicchia solipsistica dentro cui ti sei crogiolato per anni: il desiderio di ritrovare la mia “mamma bio” mi era sempre sembrato non condivisibile, è una cosa che non puoi condividere fino in fondo – e io sono stata fortunatissima, mia madre è un’assistente sociale per cui ho avuto sempre un ampio margine di parola. Quando mi sono relazionata con altri adottati si è aperto un mondo, ho vissuto momenti di felicità totale.



Io sono cresciuta con questo immaginario bifronte sulla mia madre biologica: da un lato una erinni, un buco nero che ti succhia la vita e dall’altra parte una madre madonna, fin troppo idealizzata, per me era una specie di reincarnazione di Simone Weil… Insomma, oscilli tra il terrore che che tua madre potrebbe essere una prostituta maledetta o il sogno che sia l’ereditiera o la santa che ti salverà la vita, che ti restituirà qualcosa. L’immaginario lavora molto, con conseguenze psicologiche importanti. La reunion è salvifica e sana perché ti mette davanti alla verità: la mamma bio è diversa da come tu la sogni.

Nel tuo caso come è stato?

Nel mio caso la mia mamma bio mi ha raccontato la sua versione del mio romanzo familiare, io ci credo e non ci credo, ma ognuno ha la propria verità insindacabile. Lei ovviamente non è una nuova Simone Weil, anzi, incarna un po’ tutto quello che di storto può capitarti nella vita. La mia parte sana, il mio super io è tutto incarnato dalla mia madre adottiva con cui – devo dire – dopo la reunion ho stretto ancora di più i rapporti. Un errore comune che facciamo noi adottati è cercare quella “x” che ti salva: “dammi la mia mamma bio e tutti i pezzi della mia vita frammentata andranno a posto”. Non è così. Di buono c’è che io posso congedare una parte del mio passato perché ora l’ho risolto, ma quel vuoto, rimane. L’abbandono ha creato cicatrici che rimangono, non c’è storia: questo non bisogna sottacerlo. Ma è insano che questo sia la scusa per fare vittimismo ad oltranza. Bisogna andare negli abissi, vedere i mostri: poi quando risali sei un’altra persona.

Tu, a posteriori, avevi traccia anche inconsapevole delle tue origini biologiche?

Io per anni ho sentito una vicinanza assoluta con la cultura zingara e slava, nei miei tanti viaggi nei Balcani mi sentivo a casa, ho avuto un fidanzato rom per tanti anni… La mia mamma bio mi ha detto che mio padre era un rom slavo, che l’ha mollata dopo sette incontri. Qualcosa resta, non è una finzione. Il corpo ricorda tutto.

In tanti ora parlano del ruolo dei social network: pare che oggi sia molto più facile la ricecra, grazie ad essi. Anche tu hai ritrovato la tua madre biologica attraverso Facebook. Secondo te questo nuovo scenario cosa comporta?

Il mio è stato un percorso kafkiano, appena ho compiuto 25 anni sono andata al Tribunale per fare la richiesta ma mi sono subito fermata perché lì nessuno ha saputo essere “accogliente” rispetto alla mia richiesta. Dopo un po’ ho deciso di riprovarci, ma non avevo voglia di ritentare con il Tribunale, così mi sono immessa nel circuito dei gruppi. Quando ho scoperto il cognome di mia madre mi sono messa su Facebook con il doppio cognome, mi ha chiamato una amica di infanzia della mia mamma biologica, mi ha detto che anche lei stava cercando me e io sono identica a lei. È stato un ponte. Però bisogna fare attenzione perché molte madri bio non sono “biancaneve”, molte famiglie bio sono per così dire “scalcagnate”, potrebbero utilizzare il contatto per fare ricatti economici. Succede di tutto. Quindi quando uno vuole mettersi alla ricerca deve avere le spalle forti. E soprattutto – su questo sarei molto intrasigente – mai fare questa strada da sola. Serve una persona che conosce il tema molto bene e lo sappia maneggiare nelle sue dinamiche e nelle sue conseguenze. Mai fare un viaggio a Itaca senza compagni di viaggio, perché si rischia di annegare. Non è una crociera.

In base alla tua storia e a quelle che hai visto, tu cosa consigli? Chiaramente non sul cercare o non cercare, ma sul come farlo nel caso in cui decida di avviare questo viaggio.

Intanto non si deve essere spinti da nessuno. Molti adottati dicono che è solo una curiosità, che una volta che la trovi è finita lì: occhio che non è così, se decidi di aprire quella porta puoi trovare anche qualcosa di terribile, che tu non immagini. Platone diceva che i giovani non devono fare politica perché prima hanno altri bisogni da saturare: io credo che sia un po’ lo stesso, se uno è giovane ha impellenze esistenziali più cogenti… Secondo me bisognerebbe aspettare dopo i 30 anni, quando hai un po’ capito chi sei nel bene e nel male: allora un incontro con un’altra persona – qualunque essa sia – non ti può destrutturare e farti a pezzi completamente. Il problema è che c’è un desiderio di rispecchiamento che non accade. Questa esperienza mi ha invitato a diventare io madre di me stessa: io non devo rispecchiarmi in niente e nessuno, io posso essere me a prescindere da mia madre come da mio marito. Il mio futuro è questo. Insomma, è un percorso che consiglierei, ma solo se una persona è già sufficientemente centrata, matura, forte.

Hai raccolto storie di adozioni nazionali e internazionali, vedi differenze?

Nell’internazionale forse è ancora più pesante. Mio figlio Marco è meticcio e spesso quando siamo io e lui mi chiedono se è adottato: questo continuo stigmatizzare la differenza non è piacevole. Figuriamoci che alla materna l’insegnante mi ha chiesto se mio figlio saperva l’italiano. Ma se la doppia appartenenza non sanguina diventa una ricchezza.

Perché il titolo “i colori del vuoto”?

Tutti noi adottati abbiamo delle dipendenze, un vuoto dentro. Il titolo però voleva indicare una direzione: imparare a cercare di colorare questo vuoto. Se lo abitiamo in quanto vuoto ci uccide. Ci sono tantissimi creativi fra gli adottati, forse la creatività è un modo per dare colore a questo vuoto.

Nella foto, particolare di una illustrazione del libro "I colori del vuoto", firmata da Natascia Ugliano.

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