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Quell’esperienza di accoglienza realizzata a Sori

In una grande casa, una ex struttura per minori, sono stati accolti tre nuclei familiari, con storie davvero particolari. È solo l'ultimo degli esempi liguri di accoglienza dopo Genova, Campoligure, Masone, Mele, Rossiglione e Tiglieto

di Sara De Carli

Simona Binello è la coordinatrice dell’area migranti del Consorzio Agorà. A Genova e provincia il Consorzio gestisce oltre 400 posti per l’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo, sia attraverso il canale delle prefetture (294 posti) sia con il sistema Sprar (120 posti); hanno tre grandi strutture, due comunità per minori non accompagnati e una miriade di appartamenti locati presso privati. Sono stati fra i primi in Italia a scommettere su un’accoglienza fatta di piccoli numeri, di cura delle relazioni tra le persone, di attenzione ai bisogni degli accolti e degli accoglienti.

La prima tappa è nel cuore della città vecchia, nell’ex Ghetto ebraico di Genova. Nascosta nei vicoli c’è La Locanda degli Adorno, un progetto di ristorazione sociale inaugurato nel 2013 nell’ambito del “contratto di quartiere”. Ci lavora anche un rifugiato eritreo. L’intera palazzina infatti è destinata all’accoglienza dei rifugiati inviati dalla Prefettura: su 11 appartamenti, nove sono abitati da rifugiati. Sono 35, quasi tutti maschi adulti, singoli. Arrivano da Nigeria, Afghanistan, Ghana, Bangladesh; dal punto di vista giuridico sono un mix di richiedenti asilo, rifugiati e ricorrenti. «Apprezzano la vicinanza con la moschea e la possibilità di incontrare facilmente loro connazionali, mentre il quartiere si è avvantaggiato del passaggio di tanti operatori sociali», spiega Simona Binello.

Normalizzare l’integrazione: un risultato che si raggiunge «andando alle assemblee condominiali, rispondendo mille volte a tutte le obiezioni, parlando faccia a faccia con le persone, lasciando il tuo numero di cellulare, passando negli appartamenti tutti i giorni», continua la coordinatrice di Agorà.

Campoligure, Masone, Mele, Rossiglione e Tiglieto sono cinque piccoli comuni sulle alture di Genova, 13mila abitanti in tutto. Nel 2014 i sindaci hanno deciso di partecipare a un bando Sprar, per 16 posti. Ogni Comune ha messo a disposizione un alloggio, affittato da privati, e ha accolto una famiglia con bambini. Nonostante i piccolissimi numeri, la partenza è stata complicata: gli uni avevano paura che queste famiglie li “sorpassassero” nelle graduatorie degli asili, gli altri erano spiazzati dal ritrovarsi in un paese così piccolo. Ma alla fine è stato un successo per tutti, tanto che ora le persone accolte sono 36. «I bambini sono rimasti a casa con le mamme, in attesa del loro posto, senza “scavalcare” nessuno. E non abbiamo mai accompagnato le famiglie a fare la spesa nei centri commerciali, spingendo perché spendessero i soldi nei negozi del paese: hanno iniziano a conoscere i commercianti e hanno dato una restituzione economica al territorio, nel piccolo paese impatta», spiega Binello. Due famiglie arrivate nel 2014 sono già state dimesse: un papà ha trovato lavoro a Genova tramite Agorà, l’altro, un ingegnere, ha trovato autonomamente lavoro a Milano. «Non credo che l’inserimento in un piccolo comune sia un limite. Il vantaggio è che l’integrazione qui è spontanea e in un certo senso obbligata, ti distingui come individuo, dopo due giorni tutti ti chiamano per nome».

È quello che è successo a Sori, località Sussisa, in Riviera. Partita a maggio 2015, per Simona è «un’esperienza pazzesca». In una grande casa, una ex struttura per minori, sono stati accolti tre nuclei familiari, con storie davvero particolari. Una coppia; una mamma sbarcata con due bambini e l’intenzione di raggiungere il marito in Germania, dirottata qui – a due passi dall’ospedale Gaslini – perché le visite mediche fatte al momento dello sbarco scoprono che uno dei due bambini ha un tumore al cervello; una coppia – lei nigeriana, lui del Gambia, innamoratisi durante il viaggio – che ha avuto qui due gemellini. «Inizialmente c’era ostilità, ora abbiamo una persona dedicata per gestire i turni dei volontari». E uno dei rifugiati – ha 7 patenti, nel suo Paese lavorava in un Consolato – fa il volontario nella Croce Rossa, guida le ambulanze. Una risorsa di cui una grande città non si sarebbe nemmeno accorta.

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