Welfare

Quelle brutte, sporche e cattive

di Flaviano Zandonai

A sentire in giro le nuove imprese sociali piacciono poco. Ma non dipende da quel che fanno, anzi: scuole, centri di formazione, strutture sanitarie rappresentano una novità interessante, oltre il core business dei servizi sociali e dell’inclusione attraverso il lavoro. Il problema è nel pedigree, poco nobile rispetto alle imprese sociali con radici ben piantate nel non profit e che hanno forgiato il loro progetto d’impresa intorno a espliciti obiettivi di solidarietà. Invece per le new entries è bastato il piatto di lenticchie (siamo anche nel periodo giusto) di un banalissimo comma in una qualche legge finanziaria per indurle ad adottare la nuova etichetta giuridica. Roba di serie B insomma. Eppure proprio la serie cadetta ha tenuto in linea di galleggiamento una legge che se fosse per le imprese sociali non profit sarebbe miseramente fallita. Perché? Mancano gli incentivi rispondono molti cooperatori sociali. Beh, se le cose stanno così allora Ial Cisl, scuole private della Campania o chi per loro siano le benvenute. Se poi da queste amenità tattiche si passa a considerazione di tipo strategico la valutazione non cambia di molto. L’impresa sociale di tipo non profit – leggi cooperazione sociale – è una nicchia ricca di esperienze, conoscenze e con capacità visione ma con un peso specifico limitato (a livello di policy making, visibilità mediatica, coesione di sistema e chi più ne ha più ne metta) per poter generare vera e propria innovazione sociale nella risposta ai bisogni. Meglio quindi allargare il campo, coinvolgendo soggetti davvero “altri” in un gioco di fertilizzazioni incrociate, collaborando e/o competendo su attività, modelli, gestione. Esempio: il modello multi-stakeholder su base comunitaria è davvero efficace per fare impresa sociale? Bene ora lo si può dimostrare non solo nella cerchia ristretta della cooperazione sociale (dove è ormai scattato da tempo l’allarme dell’autoreferenzialità), ma in un più ampio campo di confronto e apprendimento. La legge ha disegnato una cornice – labile e in qualche parte insufficiente – che definisce un’arena dove può aggregarsi una popolazione d’imprese sociali molto più ampia e diversificata di quella attuale (il tutto con buona pace di qualche giurista che sostiene l’impossibilità tecnica di costituire imprese sociali in forma di società di capitale, salvo poi scoprire che ve ne sono di già iscritte ai registri camerali). Se all’interno di questo quadro si sapranno manifestare comportamenti e scelte virtuose allora si potrebbe realizzare, nel medio periodo, un’obiettivo fino a ora solo solo timidamente prospettato: la possibilità di fare impresa, per davvero, in modo diverso. Altro che incentivi.

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