Politica

Quell’amicizia tra Don Gnocchi e Andreotti

Si è spento a 94 Giulio Andreotti, per 40 anni nel cuore della vita politica italiana. Ecco un'aspetto poco noto della lunga vita del Divo

di Redazione

Grande amico di don Carlo Gnocchi, il senatore Giulio Andreotti ha continuato a seguire da vicino e a sostenere, anche concretamente, negli anni, l’attività e l’espandersi della Fondazione Don Gnocchi. Ha partecipato a parecchie manifestazioni e iniziative nei vari Centri in tutta Italia: da ricordare, tra le più recenti, le due solenni commemorazioni in occasione del centenario della nascita (2002) a Milano e a Parma e, nel 2008, ancora a Milano, l’intervento di chiusura al convegno sulle attività di solidarietà internazionale della “Don Gnocchi” dal titolo “Accanto alla vita. Nel mondo”.

In occasione della beatificazione, la casa editrice San Paolo pubblica un testo inedito, dal titolo “Don Carlo Gnocchi. Nel ricordo di Giulio Andreotti” (da cui è tratto il testo di queste pagine), è stato distribuito insieme al doppio dvd del film per la tv “Don Gnocchi. L’Angelo dei bimbi” andata in onda nel novembre del 2004 in prima serata su Canale 5 con grande successo di pubblico. La fiction, per la regia di Cinzia Th Torrini, vede Daniele Liotti nel ruolo di don Carlo. Tra gli attori, Giulio Pampiglione, Francesco Martini, Pietro Taricone, Alexandra Dinu, Ugo Pagliai, Ralph Palka, Mattia Sbragia, Giuseppe Sulfaro.

 
Pubblichiamo di seguito uno stralcio del libro su don Gnocchi del senatore Giulio Andreotti:

Molto è stato scritto sulla vita e sulla morte di don Gnocchi. Posso solo aggiungere, da parte mia, qualche ricordo personale. Ero rimasto impressionato, partecipando a un raduno nazionale degli alpini, nel vedere la popolarità di cui godeva un cappellano reduce dal fronte russo. Era veramente al centro dell’attenzione di tutti i convenuti, sovvertendo ogni riguardo gerarchico o politico (generali o ministri presenti). Fui ben lieto, pertanto, di riceverlo al Viminale su suggerimento dell’amico fucino don Andrea Ghetti, autorevolmente integrato da una telefonata di monsignor Montini. Mi colpì l’esordio: «Sia chiaro che non vengo a chiedere, ma ad offrire la mia disponibilità». E venne subito al dunque.

La tremenda novità della seconda guerra mondiale – i bombardamenti sulle città – aveva colpito migliaia di bambini; e lo Stato, nelle sue strutture, non era minimamente attrezzato per venire incontro alle famiglie. L’Opera Invalidi aveva tanti meriti storici, ma non si era accorta per tempo di questa nuova leva di mutilati. Personalmente don Carlo aveva dato vita alla Federazione Pro Infanzia Mutilata, ma le dimensioni del tragico e impellente fenomeno richiedevano ben altre dimensioni di assistenza.

Senza malizia, ma con fermezza, disse che, tutti presi dalla ricostruzione, non avevamo portato l’attenzione dovuta alla costruzione di nuove strutture per i nuovi problemi sui quali – qui sorrise e calcò la voce – mancando i precedenti noi eravamo impreparati e pigri. Parlò della terrificante novità di questa ignorata legione dovuta non solo ai bombardamenti delle città e delle campagne, ma alle mine sotterrate un po’ dovunque che continuavano ad esplodere seminando morti e feriti. Come sacerdote e come italiano era lieto che si stesse dando tanto rilievo alla ricostruzione di Montecassino, ma uno solo dei suoi ragazzi mutilati valeva quanto dieci abbazie.

Parlava, spero di rendere bene il concetto, con severa dolcezza. Come mai non ce ne eravamo fatti un carico prioritario? Doveva essere proprio un “povero prete milanese” a svegliarci? Ci lasciammo con l’intesa di rivederci presto: lui con proposte precise e io con il proposito di non essere ingabbiato dal burocratismo…

Avevo assicurato comunque di riferire subito al presidente De Gasperi; e lo feci all’indomani, accendendo in lui una comprensione decisa, che portò poco dopo all’incarico a don Carlo di consulente della presidenza del Consiglio per questo problema così angosciante. Una decisione unica, per quel che ricordo.

A caldeggiare la causa di don Gnocchi presso il presidente era stato anche l’onorevole Luigi Meda, figlio del deputato Filippo Meda, che come avvocato aveva difeso De Gasperi in Corte d’Appello negli anni della persecuzione, facendogli ridurre la pena. Gigi Meda parlava con commosso entusiasmo dell’iniziativa per i mutilatini; e sua figlia fu dall’inizio una valida collaboratrice di don Carlo.

E per di più era un sacerdote!
L’incarico a don Gnocchi, però, non fu accettato pacificamente dalle strutture pubbliche, in particolare dall’Opera Nazionale Invalidi di Guerra, che pur si trovava a dover fronteggiare un carico assistenziale molto forte e avrebbe dovuto essere lieta di un supporto disinteressato e prestigioso. Per di più don Gnocchi non solo aveva titoli combattentistici più che rilevanti, ma già il prefetto di Como gli aveva assegnato la direzione dell’Istituto Grandi Invalidi di Arosio. Una specie di sovrintendenza generale che disturbava gli addetti ai lavori. E per di più era un prete!

Mai del tutto superato, l’anticlericalismo risorgimentale uscì allo scoperto e cercò di bloccarne l’azione. Sono pagine molto deludenti di un’Italia che avrebbe dovuto augurarsi che altri don Gnocchi emergessero per fronteggiare situazioni tanto drammatiche. Strana contraddizione. Molti di coloro che invocavano privatizzazioni ad oltranza, polemizzando con l’invadenza statale del ventennio fascista, in questo caso rivendicavano la… privativa pubblica!

Che don Carlo, per la realizzazione del suo disegno di assistenza e di riadattamento dei piccoli mutilati si appoggiasse o almeno si coordinasse con una congregazione religiosa era naturale e necessario: scelse quella degli orionini, che aveva già dimostrato sensibilità in proposito. Non c’è da meravigliarsi se l’integrazione fu difficile e non durò a lungo. Anche perché il referente, don Piccinini, era personaggio esuberantemente difficile. Io stesso dovetti constatarlo. Non potendo dar corso immediato a una sua richiesta per il Foro Italico, mi trovai invaso il cortile di casa da una banda musicale dei suoi ragazzi, con un chiasso assordante che da quel momento rese complicati i miei rapporti con i coinquilini.

Operativa fu invece la collaborazione di don Carlo con i Fratelli delle Scuole Cristiane, vecchia conoscenza del Gonzaga.

La convinzione di don Carlo che una sottolineatura pubblica del problema specifico su cui ci aveva “svegliato” avrebbe suscitato anche nuovi consensi privati oltre quelli già operanti si dimostrò esatta. Nell’Albo d’oro – in verità mai scritto formalmente – emergono casate lombarde di peso, per censo, come Falck e Borletti, o per notorietà internazionale, come Wally, la figlia del grande Arturo Toscanini.

L’Angelo dei… bigami
Per propagandare il bene occorre anche fantasia. E don Carlo andò oltre l’immaginabile con un’idea fantastica. Quando mi parlò del volo transoceanico affidato a un piccolo aereo a biposto, mi parve una stravaganza, poco realizzabile. Ma non conoscevo abbastanza don Gnocchi. Il volo in Argentina di Leonardo Bonzi e di Maner Lualdi, con scalo a Dakar, Rio de Janeiro e Porto Natal, richiamò davvero l’auspicata attenzione. I risultati finanziari non furono gran cosa, ma il messaggio arrivò dovunque; anche come elemento di riflessione sull’orrore per la guerra senza fronti di combattimento.

L’Angelo dei bimbi, così fu chiamato il volo, divenne ironicamente l’Angelo dei bigami. Ma anche l’ironia giova, se dilata gli ambiti di pubblicità di un’iniziativa giusta.

Attorno alle iniziative per i mutilatini si era presto creata un’affettuosa attenzione e don Carlo si prodigava per farla ampliare e concretizzare. I punti di riferimento più sensibili erano gli alpini, specie i reduci che l’avevano conosciuto sul campo.

Il ministero dei cappellani militari non è stato mai facile. Si tratta di portare la Parola di Dio e di attrarre persone le più diverse: sia per classificazione gerarchica, sia per temperamenti umani e disposizioni religiose. Qualche volta, per stimolare la confidenza, alcuni cappellani si mimetizzavano; e non di rado suscitavano l’effetto opposto.

In guerra i problemi sono i più complessi. Occorre che tutti sentano il cappellano come uno di loro nelle ansie, nei pericoli, nelle speranze, nel pensiero costante delle famiglie lontane. Quando poi la battaglia infuria, le sorti sono negative, avvengono ripiegamenti confusi e avvilenti: il sacerdote è prezioso, prima di tutto condividendo in prima linea rischi e fatica. Sotto questo aspetto don Carlo fu spontaneamente perfetto. Lo era stato nei Balcani, ma ancor più nella tragica spedizione in Russia.

Riassuntiva può essere questa testimonianza di uno dei reduci (Angelo Fava): «Durante i bombardamenti lo vidi più volte accanto ai morenti, mentre infuriava il fuoco delle batterie; poi si alzava da uno e subito passava a un altro, incurante del pericolo e del freddo».

Se qualcuno dei collaboratori si lasciava sfuggire l’apprensione per il “dopo”, cioè quando lui fosse morto, lo rassicurava sorridendo. La Provvidenza avrebbe trovato di sicuro altri strumenti. Non immaginavano certamente che il “dopo” sarebbe venuto così presto.

Si preoccupava anche di infondere fiducia nei bambini, specie di quelli per i quali non vi era speranza di normalizzazione. Non voleva che ascoltassero parole di commiserazione. L’aggettivo di poveri bambini era estraneo al suo vocabolario, anzi rimproverava chi l’usava. Gli ospiti della sua baracca non erano povere creature.

La denominazione “Pro Infanzia Mutilata” era emblematica e le bombe disseminate in molte regioni, che costituivano un perfido agguato (non solo, ma specialmente per i bambini) lasciavano prevedere purtroppo che per non poco tempo la legione delle piccole vittime si sarebbe accresciuta. Vi erano comunque per spontanea connessione altri problemi sanitari per la gioventù che stavano emergendo, come il flagello della poliomielite. Di qui l’idea di ampliare lo spazio operativo dell’Opera, che divenne Fondazione Pro Juventute. La personalità giuridica della Fondazione stessa (che alla morte di don Carlo assumerà anche il suo nome) avvenne a mezzo di decreto del presidente della Repubblica Einaudi su proposta del presidente del Consiglio De Gasperi, previo parere del Consiglio di Stato, sotto la data dell’11 febbraio 1952. Tutto in termini straordinariamente solleciti.

Libera circolazione sui treni
Gli scopi della Fondazione erano così fissati: ricovero nei propri Collegi specializzati di minori lesionati fisici in genere, con precedenza a quelli lesionati per causa di guerra e poi per paralisi infantile, al fine di attendere alla loro rieducazione fisica, morale e sociale.

Vi erano resistenze negli apparati al ruolo affidato a don Gnocchi. Purtoppo vi erano anche se, una volta a contatto con il personaggio e con i suoi assistiti, molti resistenti e dubbiosi si ricredevano. Per chi non conosce l’ambiente può sembrare poco rilevante, ma fu sintomatico l’apprezzamento governativo per la Fondazione Pro Juventute concretato nella concessione della tessera di libera circolazione sulle Ferrovie dello Stato non solo a don Carlo, ma anche ad alcuni suoi collaboratori.

Non sempre alle istituzioni ministeriali, volte a sostenere il compito di promozione e coordinamento affidato a don Gnocchi, facevano seguito procedure esecutive conseguenti. Ho rinvenuto con rammarico tracce di “solleciti ai solleciti” che attestano la resistenza degli apparati. Persino all’interno del Viminale le pratiche, da un piano all’altro, si inceppavano. Tanto da richiedere la sollecitazione da parte della contessa Wally Toscanini, divenuta formalmente presidente del Comitato di sostegno della Fondazione. Di una stessa giornata (15 maggio 1948) sono due lettere di don Carlo a Wally perché sollecitasse dai ministri il pagamento delle rette («…un istituto come il nostro che non ha un centesimo di patrimonio si vede costretto a elemosinare giorno per giorno i mezzi per non chiudere»).

E, a differenza di altre istituzioni, non vi erano certo esuberi di dipendenti e carichi di spese generali non strettamente indispensabili. Crescevano invece le esigenze obiettive. Non solo, come aveva previsto, le esplosioni di mine durarono a lungo, ma purtroppo eventi nefasti erano presenti nella vita ordinaria dei cittadini, comprese ondate di malattie specifiche, non sempre fronteggiate tempestivamente.

Don Carlo fu tra i primi a sostenere la vaccinazione obbligatoria contro la poliomielite, accettata con riluttanza dall’opinione pubblica italiana. E vide nei mutilati da polio uno dei nuovi campi d’azione tempore pacis.

Da quel giorno mi volle più bene…
Per alcuni anni le visite a Roma di don Carlo furono frequenti. Io fissavo l’appuntamento con lui come ultimo della sera, in modo da dedicargli più tempo. Mi rasserenava – dopo giornate spesso convulse e distraesti – parlando anche della sua infanzia difficile (da quando seppe che anche mia madre era rimasta vedova con tre figli a carico sembrò volermi più bene), del seminario, del cardinale Schuster, che noi fucini avevamo ingiustamente criticato per la sua visita alla Scuola di Mistica fascista.

Un tema estraneo alla sua attenzione era la politica. Eppure erano gli anni di un forte impegno per così dire difensivo della Chiesa verso le persecuzioni dei sovietici e dei loro alleati. Non so come avesse votato il 18 aprile 1948 (né essendo io candidato a Roma chiesi a lui di votarmi). Padre Gemelli gli aveva chiesto – credo per rispondere a un’iniziativa vaticana – quale fosse stato, nell’occasione, l’atteggiamento degli studenti della Cattolica, dove era assistente spirituale insieme a monsignor Olgiati e padre Turoldo. Ignoro la risposta.

Lo stesso padre Gemelli, che aveva già visto male il suo impegno ad Arosio, quando si espanse la sua attività per i mutilatini lo licenziò. Esigeva il tempo pieno. Don Carlo avrebbe preferito la via del sollecito di dimissioni e reagì («il modo ancor m’offende»), ma continuò ad avere per il rettore grande e devota ammirazione.

Le visite a Roma, sempre molto brevi e piene di impegni, divennero a un certo momento rare. Con accenti preoccupanti, i suoi collaboratori accennavano a disturbi seri e ad un nuovissimo rallentamento nel lavoro. A Natale del 1955 ebbi i suoi auguri da Inverigo. Don Carlo che si riposava era una novità assoluta. Ed in effetti poco dopo dovette farsi ricoverare e ricevette per tre volte la visita dell’Arcivescovo amico Montini.

Il 27 febbraio, morente, affidò al professor Galeazzi un compito extra-legem: appena spirato, avrebbe dovuto trapiantare le sue cornee per dare la vista a due ragazzi ciechi. Il giorno dopo morì e, eludendo una obbligata vigilanza ostile della polizia, il clinico potè obbedire a don Carlo. Così i ciechi Silvio Colagrande e Amabile Battistello videro.

Quella folla enorme ai funerali
Andai a Milano. Il funerale dentro e fuori il Duomo (dove il 6 giugno 1925 don Gnocchi era stato ordinato sacerdote) fu autenticamente trionfale. Folla enorme, con gli alpini convenuti da tutte le province; molti avevano episodi personali da raccontare su questo sacerdote coraggioso, amico vero negli anni di guerra. Anche i bambini mutilati erano tanti, dando un’immagine emozionante di quella che era stata la missione-capolavoro di don Carlo.

L’Arcivescovo Montini cedette il microfono a un mutilatino che suscitò in tutti una profonda emozione dicendo: «Finora ti abbiamo chiamato don Carlo, ora sarai san Carlo». Ho ripensato a questa profezia del piccolo mutilato quando al funerale di Giovanni Paolo II dalla folla si è levato il grido “santo subito”.

Tre giorni dopo la morte di don Carlo, Pio XII all’Angelus lo ricordò, accennando commosso al dono dei suoi occhi. Fu un’autorevole spinta a superare gli ostacoli, fino allora invincibili, per dar vita a una legge sui trapianti. Qualche ostacolo lo avevano posto anche i teologi, ma fu superato da un lucido intervento dell’attuale cardinale Fiorenzo Angelini, promotore della Commissione Pontificia per la Pastorale Sanitaria.

Le spoglie di don Carlo riposano ora nel Centro “S. Maria Nascente” di Milano, il centro pilota costruito secondo il suo disegno di anticipazione post-bellica. È però tuttora disatteso un suo auspicio. Giuristi e organismi internazionali non sono stati capaci di promuovere una schema umanitario così come avvenne dopo la prima guerra con la Convenzione di Ginevra. Forse è aspirazione idealistica, ma si dovrà un giorno raccoglierla.


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