La violenza sulle donne è una violenza globale. Nel senso che si tratta di un fenomeno planetario che non ha confini geografici e geopolitici, né di reddito. Esteso ad ogni fascia sociale e di età. Il voto al Senato di oggi, con l’approvazione con ratifica e esecuzione, della Convenzione di Istanbul, fa sperare in un adeguamento della nostra politica a risposte globali. Si tratta infatti del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante di protezione delle donne contro qualsiasi forma di violenza; uno strumento che promuove la ‘cooperazione internazionale’ al fine di eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica. E per una volta non siamo ultimi, dato che il nostro Paese è stato il quinto a ratificare la Convenzione, dopo Turchia, Albania, Montenegro e Portogallo.
Bene anche che in un Paese come il nostro, ci si abitui finalmente a chiamare le cose con il loro nome. Visto che il testo della Convenzione riconosce già nel Preambolo che “la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi”; e che la violenza sulle donne è “basata sul genere” e che come tale rappresenta una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione. Nell’articolo 3 inoltre si nominano tutte le forme di violenza a cui sono esposte donne e ragazze, “tra cui la violenza domestica, le molestie sessuali, lo stupro, il matrimonio forzato, i delitti commessi in nome del cosiddetto ‘onore’ e le mutilazioni genitali femminili”, tutti ostacoli al “raggiungimento della parità tra i sessi”.
La novità sta nel collocare anche “la violenza domestica” nel quadro delle violazioni dei diritti umani e quindi far diventare il contrasto ad essa, responsabilità dello Stato. La violenza di genere diventa questione politica, che richiede un intervento deciso da parte delle istituzioni. Un punto centrale, perché nominando “gli obblighi dello Stato e dovuta diligenza” conferisce allo Stato un ruolo attivo. Uno Stato che non solo vigila, ma che non rimane in silenzio, quando la violenza avviene all’interno delle mura familiari, per mano di un marito, convivente o compagno. E sappiamo che sull’assunzione di responsabilità – come ha sottolineato Rashida Manjoo, Special Rapporteur delle Nazioni Unite a seguito della sua missione in Italia – il nostro Paese è carente. Alcuni degli 81 articoli del documento mettono l’accento su una serie di misure concrete per prevenire ma anche proteggere le donne, tra cui la possibilità di accedere a case rifugio e centri antiviolenza. Qualcosa su cui l’Italia è indietro anni luce, visto che sul nostro territorio ci sono 500 centri antiviolenza, contro i 5700 previsti dagli standard europei.
Sicuramente quindi il voto di oggi è un segnale positivo, il segnale di un cambio di rotta per il nostro Paese; l’inizio di un nuovo percorso a cui si è arrivati perché c’è stato un riconoscimento da parte delle istituzioni italiane del valore e dell’importanza della Convenzione; ma anche grazie al lavoro delle organizzazioni della società civile che quindi ci aspettiamo siano consultate perché la “carta dei diritti delle donne” diventi operativa.
Il documento ora necessita la ratifica di almeno altri cinque Stati (ne occorrono infatti dieci di cui almeno otto membri del Consiglio d’Europa) e se – come ha dichiarato la Vicesegretaria generale del Consiglio d’Europa Gabriella Battaini – sembra possibile l’entrata in vigore entro la fine dell’anno, l’Italia potrebbe in questa fase fare da traino.
Ma una volta entrata in vigore? La Convenzione non può essere a costo zero per gli Stati. Ha bisogno anche di risorse e coperture finanziarie concrete, che spetta al nostro Governo mettere in atto. Perché la Convenzione diventi vera, sia atto concreto nella vita di tutti i giorni delle donne, servono soldi per la formazione di professionisti, per le case rifugio, per i centri antiviolenza. Servono soldi anche perché un Paese indietro come il nostro riconosca la dimensione sociale e culturale della violenza sulle donne, mettendo fine agli stereotipi di genere che come ricordato dalle raccomandazioni del Comitato Cedaw (Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna), in Italia sono causa delle disuguaglianze tra donne e uomini in tutti gli ambiti della vita.
Anche per la lotta agli stereotipi servono risorse; e serve che questi stereotipi, che si è lasciato crescere e legittimare in questi anni, siano messi in discussione soprattutto dagli uomini. Questo può avvenire anche attraverso una educazione di genere a tutti i livelli di istruzione e attraverso il controllo dei messaggi veicolati daimedia; perché nessun media possa permettersi mai più un’informazione sul femminicidio limitata al semplice gossip di cronaca nera o peggio ancora alla giustificazione passionale.
Una volta votata e tramutata in disegno di legge, cosa verrà fatto dal nostro Governo per dare della Convenzione piena attuazione? E con quali risorse? Spero, come in altri ambiti in cui ActionAid e’ impegnata, di non dover ascoltare il solito disco incantato: le risorse non ci sono, perché il Paese ha altre priorità.
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