Cultura
Quella tragedia da nulla relegata a pagina 10
Sono morti in otto soffocati in un container, profughi da non si sa quale paese e senza che ai giornali interessasse
Per loro non ci sono stati accorati commenti, cerimonie, lutto. Nemmeno le prime pagine dei giornali. Solo poche righe in decima o undicesima, un laconico comunicato nei tg. Eppure sono morti in otto, tra cui due bambini, nel modo più orribile, soffocati in un container sigillato dall?esterno, o forse di stenti dopo due settimane di segregazione, trasportati per tutta Europa su treni, navi e camion. Nemmeno la nazionalità è certa: si dice fossero rumeni, uno dei sopravvissuti pare parli turco… I poveri, è proprio vero, non hanno patria.
La notizia (come quelli degli altri quattro immigrati trovati morti appena qualche giorno dopo in un container arrivato nel porto di Livorno) è scivolata via, tra le immagini della guerra, sovrastata e messa a tacere dai festeggiamenti per la caduta di Kandahar con seguito di scontri tribali, e dai preparativi delle grandi cerimonie di cordoglio nel terzo ricorso mensile delle Twin towers, ormai luogo unico del cordoglio globale. E anche questo è il segno del deficit umanitario che ci sta devastando: in un sistema dell?informazione (e in generale in una società) civile, quella tragedia avrebbe meritato ben altro rilievo. E ben altro allarme. Intanto perché quelle morti hanno in sé un carico di orrore, di sofferenza estrema, di dolore disumano che sfida il silenzio: che lo costituisce in sé come colpa. E poi perché nella storia di quelle vite , del loro percorso, di quel calvario, c?è il segno della nuova ?questione sociale? con cui si apre il secolo nuovo. Di quella che sarà, con ogni probabilità, la sfida più alta dei prossimi decenni: la presenza in spazi ormai enormemente vicini a noi, alla nostra quotidianità, di dislivelli di vita e di ricchezza abissali, di indigenze intollerabili, capaci di spingere intere famiglie a forme di ?suicidio? certo meno aggressivo ma altrettanto drammatico di quello cui si assiste ormai quasi ogni giorno in diretta.
Di fronte a ciò la logica di Schengen, il presidio delle frontiere, l?interdetto all?ingresso assume un carattere ferocemente discriminatorio. Costituisce, lo dico con tutta la prudenza che l?argomento richiede, ma anche con tutta l?indignazione che solleva, una forma ?coperta? di apartheid, non molto diversa da quella che abbiamo stigmatizzato e combattuto fino all?uso del boicottaggio in Sud Africa. Interdire l?attraversamento del ?nostro? spazio ai poveri delle immediate periferie, tracciare linee invalicabili, dichiarare i nostri luoghi di vita chiusi agli altri, ricorda la Johannesburg del prima Mandela, la segregazione dei ghetti, l?imposizione dei lasciapassare e l?esclusione da scuole, ristoranti, locali pubblici ai neri di allora. Un apartheid silenzioso, ?non ideologico? si direbbe oggi, privo del pathos dell?odio di razza. Un apartheid esclusivamente sociale, che non guarda il colore della pelle ma tiene fuori in base a fasce di reddito, disponibilità di risorse, denaro.
D?altra parte è così, da qualche tempo grandina sugli ultimi. Guardiamoci intorno: retate di immigrati nelle città sotto la copertura della lotta al terrorismo, ondate di espulsioni che non fanno neppur più notizia, un progetto di legge governativo che peggiora la già discutibile legge 40 introducendo elementi di vero e proprio sadismo sociale (il potenziamento dei centri di permanenza temporanea finanziato con i Tfr degli immigrati), una legislazione imperiale americana che assimila sempre più lo ?straniero? (il migrante) al nemico, intere nazioni (come l?Australia, interamente costituita da immigrati) mobilitate contro le nuove ondate migratorie fino a chiedere l?aiuto delle Nazioni unite per rimpatriare i clandestini, campi di concentramento in Irlanda (Paese di emigranti quant?altro mai) per migranti in attesa di giudizio e di espulsione. Il presidente della Banca mondiale, in una recente intervista, ha parlato della necessità di una vera e propria guerra alla povertà. Per ora quella che si vede è piuttosto una più inconfessabile guerra ai poveri.
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