Cultura

Quella libertà che non piace al capitalista

Nella Centesimus annus il Papa ha ricordato come l’economia di mercato sia il genus e come il capitalismo ne sia solo una specie.

di Stefano Zamagni

All?interno dell?ampio e straordinario magistero di Giovanni Paolo II, uno spazio particolare, sia per la novità sia per la profondità di discorso, è occupato dalle riflessioni in ambito propriamente socio-economico. In particolare la Centesimus annus è un?enciclica che ha rappresentato un punto di svolta radicale nella dottrina sociale della Chiesa. L?aspetto più rilevante che emerge in essa è la distinzione netta tra economia di mercato e economia capitalistica. Come è noto – o così dovrebbe essere – a partire dalla fine del XIII secolo e fino alla metà del XVI secolo, in Umbria e Toscana andò a costituirsi quel modello di ordine sociale per il quale il nostro Paese è giustamente rimasto famoso nel mondo e che è conosciuto come ?civiltà cittadina?. Si tratta di un modello sostenuto dalla riflessione teorica di quelli che E. Garin e J.G. Pocock hanno chiamato gli ?umanisti civili?. Istituzione centrale del modello di civiltà cittadina è proprio l?economia di mercato, quale da noi intesa oggi. Scuola francescana docet Come chiaramente emerge dalla riflessione sistematica della Scuola francescana, prima vera e propria scuola di pensiero economico, tre sono i pilastri che identificano e sorreggono l’economia di mercato. Il primo è la divisione del lavoro, intesa come principio organizzativo per consentire a tutti, anche ai meno dotati, di svolgere un?attività lavorativa. In assenza della divisione del lavoro, infatti, solamente i più dotati saprebbero provvedere da sé a ciò di cui hanno bisogno. Per afferrare il significato profondo di questo primo pilastro è bene ricordare la massima francescana secondo cui l?elemosina aiuta a sopravvivere, ma non a vivere, perché vivere significa produrre, partecipare cioè alla creazione del bene comune, e l?elemosina non aiuta a produrre. Al tempo stesso, la divisione del lavoro migliora la produttività attraverso la specializzazione e obbliga di fatto gli uomini a sentirsi reciprocamente vincolati gli uni agli altri. È sulla base di questa constatazione che viene elaborato il principio di reciprocità a complemento e come controbilanciamento del principio dello scambio di equivalenti (di valore), già noto dai tempi della Scolastica. Il secondo pilastro è la posizione di primo piano che assume nell?agire economico la nozione di sviluppo e, di conseguenza, quella di accumulazione. Non è solo per far fronte ad emergenze future che si deve accumulare ricchezza, ma anche per dovere di responsabilità nei confronti delle generazioni future. Una parte quindi del sovrappiù sociale deve essere destinata a investimenti produttivi, quelli cioè che allargano la base produttiva e il cui senso profondo è quello di trasformare quello economico da gioco a somma zero a gioco a somma positiva. Nasce così l?organizzazione del lavoro manifatturiero e la messa in pratica di una sistematica formazione delle nuove leve attraverso l?apprendistato e l?incentivo al miglioramento della qualità dei prodotti con la richiesta del ?capolavoro?. Ed è anche così che si procede alla introduzione degli standard e al controllo delle misure, invenzioni queste che rendono il mercato più affidabile e trasparente e che contribuiscono ad abbassare in misura ragguardevole quelli che oggi chiamiamo i costi di transazione. Il terzo pilastro, infine, dell?economia di mercato è la libertà d?impresa. Chi ha creatività, adeguata propensione al rischio e capacità di coordinare il lavoro altrui – sono queste le tre caratteristiche che definiscono la figura dell?imprenditore – deve essere lasciato libero di intraprendere, senza dover sottostare ad autorizzazioni preventive di sorta da parte del sovrano (o chi per lui) perché la ?vita activa et negociosa? è un valore di per sé e non solo mezzo per altri fini. Gli imprenditori furono non solo i più attivi soggetti di apertura culturale, ma anche i più attivi produttori di innovazioni organizzative sia in campo aziendale, sia in ambito macroeconomico, sia ancora a livello di assetto giuridico-istituzionale della società: si pensi alla nascita della lex mercatoria e del diritto della navigazione, esempi che mostrano in modo eloquente come non tutto il diritto sia prerogativa esclusiva dello Stato. Senza queste realizzazioni mai si sarebbe potuto avere uno sviluppo economico sostenibile e diffuso sul territorio. E sono proprio queste realizzazioni a rappresentare la prima concreta applicazione del principio di sussidiarietà. Il bene comune e libertà Ebbene, è solamente a partire dal Seicento che l?economia di mercato inizia a diventare economia capitalistica, anche se occorrerà attendere la rivoluzione industriale per registrare il trionfo definitivo del capitalismo come modello di ordine sociale. Ai tre pilastri di cui sopra, il capitalismo aggiungerà il ?motivo del profitto? e cioè la finalizzazione di tutta l?attività produttiva ad un unico obiettivo, quello della massimizzazione del profitto da distribuire tra tutti i fornitori di capitale, in proporzione dei loro apporti. È con la rivoluzione industriale che si afferma il principio «fiat productio et pereat homo» che finirà con il sancire la separazione radicale tra conferitori di capitale e conferitori di lavoro e che costituirà il superamento definitivo del principio «omnium rerum mensura homo» che era stato posto a fondamento dell?economia di mercato. Non trovo modo più convincente per ribadire il concetto che la logica del profitto, come oggi viene intesa, non è fondativa dell?economia di mercato che quello di rinviare alla lettura completa, e non solo di singoli pezzi, della Centesimus annus. La costante che ricorre in tutti gli scritti su temi economici di Giovanni Paolo II è che le attività di mercato vanno orientate al bene comune, dal quale esse traggono legittimazione, anzi giustificazione. Si badi che il bene comune è cosa assai diversa dal bene totale ovvero dal bene collettivo. È stato l?utilitarismo di Bentham a statuire la coincidenza dei due concetti, come ancor oggi si continua erroneamente a pensare. Molti equivoci ed inutili dibattiti si potrebbero evitare se fosse a tutti chiaro che la dottrina sociale della Chiesa non è affatto contro l?economia di mercato, né che essa identifica erroneamente quest?ultima con il capitalismo. Con grande maestria la Centesimus annus precisa che mentre l?economia di mercato è il genus, il capitalismo ne è solo una specie, storicamente determinata, e che laddove quest?ultimo trova la sua legittimazione nel principio di efficienza, l?economia di mercato pone la sua giustificazione nel valore della libertà. Questo significa che l?ancoraggio etico dell?agire economico non può essere la logica del profitto – il quale è piuttosto la conseguenza, lecita e opportuna, ma non la causa finale di quell?agire – bensì l?etica delle virtù, la cui cifra è nella capacità di risolvere, superandola, la contrapposizione tra interesse proprio e interesse per gli altri, cioè tra egoismo e altruismo. È questa contrapposizione, figlia della tradizione di pensiero individualista, a non consentirci di afferrare ciò che costituisce il nostro bene. La vita virtuosa è la vita migliore non solo per gli altri – come vorrebbero i ?buonisti? di tutte le latitudini – ma anche per se stessi. È in ciò il significato proprio della nozione di bene comune: l?interesse di ciascuno si realizza assieme a quello degli altri, e non già contro, come avviene col bene privato, né a prescindere, come accade con il bene collettivo. Mai si sarà riconoscenti e grati a sufficienza a Giovanni Paolo II per il pensiero profetico e per la testimonianza di fede che ci ha donato gratuitamente negli oltre ventisei anni di pontificato.


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