Cultura

Quel loro feroce amore

Dario Manfredini da anni lavora in una comunità di sofferenti psichici a Milano. Da questa sua esperienza ha tratto un testo teatrale presentato al festival di Sant'Arcangelo

di Redazione

Una scena completamente bianca. Sulla scena scorrono, proiettati in diapositive, degli struggenti acquerelli dai colori tenui, qualche mobile malfermo e una sedia a rotelle con un pupazzo( il “doppio” dell’attore) per citare con esplicita chiarezza gli interni delle case di riposo o dei sanatori per persone affette da disturbi mentali. è la scenografia di Al presente, di Danio Manfredini, l’attore-autore che ha fatto della ricerca teatrale un luogo nel quale interrogare il mistero della malattia e della normalità, se si vuole, in quelle che potremmo chiamare le diverse abilità di leggere e raffrontarsi al reale. Da molti anni Manfredini, che ora sta portando in tutte le città italiane questa sua fatica, frutto di un lavoro di ben quattro anni, si confronta con una ricerca che ha per piattaforma il lavoro di laboratorio teatrale svolto con la comunità milanese per la quale lavora e che gli ha fornito l’opportunità di approfondire teatralmente un tema come quello della infermità psichica. «Ci sono nello spettacolo fatti, incontri, dialoghi, segreterie telefoniche, immagini, suggestioni accumulate nel corso della mia vita e depositate nel mio mondo interiore», afferma l’autore milanese. «Per me il soggetto è e resta l’uomo senza etichette, quell’uomo unico con le sue ansie, le sue paure, i suoi desideri che spesso si esprimono per bisogni naturali, stati d’animo o umori. C’è solo da immaginare che nella diversità, in quello stato di grazia dannata che può essere la follia, tutto risulta sottolineato marcatamente, emerge con impietoso impeto, sopravanza i filtri della ragione e si propone per diretta rappresentazione. Per questo è più in grado di toccare la cifra più vera dell’essere umano, che è spesso la sofferenza». A Danio Manfredini non piace parlare di teatro della follia, sebbene questo sia il viatico ora della sua rilevazione teatrale. «Mi appello alla follia perché molti mi indicano questa cosa come determinante per il mio lavoro, o se si vuole per denunciare un linguaggio che tutti, per paura e rimozione, vogliamo vedere statuito e distaccato da noi. Ma lì dentro, c’è tutto e il contrario di tutto, un caleidoscopio di esseri e personaggi che ho cercato di rendere in maniera anche vorticosa esattamente come a me appare il mondo: vorticoso e fluttuante». Vita: In effetti la pièce vive di personaggi che si susseguono, come spezzoni… Danio Manfredini: Sì, ma è una frammentarietà il cui filo narrativo è il dolore, che attraversa tutta la diversità delle persone disabili o socialmente malmesse. E in loro si stabilisce il legame tra me, che svolgo la funzione di prestare corpo e voce, e la sofferenza. Ci sono delle realtà sociali per le quali si accentua l’evidenza del dolore, che diventa impossibile da nascondere o, se vuoi, ferocemente manifesto. In questo senso la vicinanza a queste persone mi fa sentire la risonanza immediata di una condizione che appartiene a tutto il genere umano ma che in loro è reso immascherabile ed evidente. è difficile andare in giro con una cicatrice visibile, esporre quella zona che tutti quanti vogliamo tenere nascosta. Per questo li si emargina. Mi è piaciuto quel loro non potersi chiudere al dolore, quel loro manifestarsi in una luce nuda e senza schermi. Mi è piaciuta la loro complessità: ombra e luce, dichiarazione della pazzia alla quale non ci si può opporre e sua oscurità profonda, che fa paura. Qui è nato questo teatro, che all’inizio ho faticato molto ad aggregare in un solo multiforme racconto, e che per questo ho chiamato Al presente. Il titolo significa il modo nel quale mi si è manifestato, appunto a frammenti e a pezzi d’immagini, voci, suoni che a poco a poco il corpo dell’attore ha ricomposto. Vita: La tua comunità ha visto il lavoro? Manfredini: Gliene ho parlato, ho chiesto il permesso di usare i messaggi della segreteria telefonica che hanno lasciato sul mio telefono in questi anni. è un tipo di interrelazione, quella tra me e loro, che ormai fa parte della mia vita e non sbaglio se dico che tradurla in comunicazione o sopportarla non è facile. Arrivare a casa la sera e sentire quelle loro voci tristissime, credimi, non è facile. Tengo però a precisare che ci sono altri elementi nel mio lavoro, una serie di letture che mi sono servite per elaborare il materiale. Vita:Tipo? Manfredini: Penso alla mitologia, a Dioniso che spesso è stato citato non a sproposito. E poi alla religione. Vita: In effetti c’è un momento in cui interpreti due personaggi che recitano il Credo… Manfredini: Ho soltanto fatto lo sforzo di ripetere quella professione di fede, sciancata nelle loro verbalizzazioni, e riportarla nella scena. Così come la citazione delle invocazioni alle piaghe e al corpo di Cristo: lo ho sentite e le ho riprodotte. Mi sono sembrate belle e terribili e l’ho fatto. Vita: Questo è uno spettacolo anche della memoria. Molti testi recitati dalla voce narrante sono un continuo confronto con quello che ci si è lasciati alle spalle… Manfredini: Infatti. Il senso di questo lavoro ha a che fare con la condizione della mente. Essa ha questa facoltà di ricordare, di proiettarsi nel futuro, di spostarsi nel tempo anche se il presente domina con la sua ineluttabile irreversibilità. Le tante voci che interpreto, sono appunto l’attore, che ha la funzione di rappresentare le diverse facce del mondo, e quel manichino che invece è l’artista, la sua domanda costante sulla vita. Assumo su di me la funzione di riferire di quelle tante facce viste e incontrate, nel tono di comicità o assurdità che esse mi hanno suggerito. Come esattamente accade mentre viviamo. Una mescolanza di tutto nel quale si attiva un principio semplice: non esiste una storia principale, tutte sono narrabili, dalle più estreme come quella di Franz e Maria (una scena esilarante nella quale un personaggio, Franz, cade progressivamente nella follia omicida e fa a pezzi l’altro, Maria, ndr) alle più banali come quella del prostituto marocchino. Vita: E gli acquarelli che hai usato come scenografia? Manfredini:/b> Li ho fatti io. Erano in realtà degli appunti per una scenografia che non sono riuscito a realizzare. A un certo punto mi sono accorto che erano dei veri e propri input che accompagnavano le arie sconnesse dello spettacolo e che mi aiutavano a mettere ordine o a ricamare tra di loro le diverse scene. Una sorta di zone visive che racchiudono l’indivisa zona del ricordo, quegli strati di passato che ci portiamo tutti dentro e che rimangono appena abbozzati nella mente. Di tutti, in quella dei “matti” e in quella dei “normali”. E forse è questo che ci avvicina. Bografia di Danio Manfredini Il percorso di Danio Manfredini inizia negli anni 70 presso il Laboratorio del centro sociale Isola di Milano: studia con César Brie, Iben Nagel Rasmussen, Dominique De Fazio, Tadashi Endo. Tra le sue opere teatrali si ricordano Miracolo della Rosa (premio Ubu 1990), Tre studi per una crocifissione (1992) e Al presente (1997). Collabora da alcuni anni a seminari e regie dell’Associazione Sosta Palmizi e, più recentemente, con il Teatro Valdoca per il quale ha interpretato il ruolo di protagonista nel Parsifal. Per la singolarità del suo lavoro, nel 1999 ha vinto il premio Ubu come miglior attore. Danio Manfredini conduce da diversi anni, a Milano, un laboratorio di espressione visiva all’interno di una comunità terapeutica per sofferenti psichici (la comunità Casanuova). Nell’89 ha creato lo spettacolo che più lo ha fatto conoscere, Il miracolo della rosa, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Jean Genet, di cui Manfredini era ideatore, interprete e regista. Nell’89 ha presentato La vergogna, ispirato a Genet e a Pasolini: «Sono approdato di nuovo a Genet e in particolare, per molti aspetti, alla struttura drammaturgica di Pompe funebri, attratto, più che dalla trama, dalle tematiche affrontate: l’amore, la perdita, il dolore, il tradimento, la vergogna, la solitudine. Sono approdato a Pasolini, alla sua poesia non esente dalle esperienze di umiliazioni e vergogne. I suoi ritratti della marginalità. Le periferie». L’estate scorsa l’attore ha accettato di presentare al Festival di Santarcangelo, sotto forma di prova aperta, il complesso risultato di questo percorso, intitolandolo Al presente. Lo spettacolo sarà in tournée nei prossimi mesi a Napoli, Ravenna e Bari. A Milano sarà a maggio al teatro Crt.


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