Cultura

Quel frate che in Messico fa corsi di informatica insieme a Microsoft e Cisco

L'intervista a Padre Flor Maria Rigoni che in Chiapas ha costruito la casa del migrante, dedicata a quelle famiglie che abbandonano i propri villaggi per partire alla volta degli Usa. «Dopo Tapachula e il Ciudad Juarez, in cui ho accolto 700mila persone, ho terminato un rifugio anche qui, frutto di sacrifici, aiuti, collaborazioni, sudore»

di Nicola Nicoletti

Un frate dal saio candido, si muove alle prime luci dell’alba a Guadalajara. Barba bianca, folta, che ricorda Terzani, abito lungo, sino ai piedi coperti da calzari di cuoio. Sguardo mite, parlata dolce. Padre Flor Maria Rigoni sembra uscire da un convento di clausura con i suoi modi pacati. È invece arrivato dalla frontiera sud del Messico, infuocata in tutti i sensi, in cui neonati viaggiano sulle spalle di mamme ragazzine cariche di borsoni. Famiglie intere lasciano villaggi poveri e in preda ai narcos per un viaggio negli Usa a cercare il futuro. Dal Chiapas, in quella casa del migrante che il religioso ha costruito quando è arrivato in Messico, cerniera tra un Sud, terra di migranti, verso il nord, dove si cerca ancora il sogno americano.


Che ci fa un frate italiano a Guadalajara?
Dopo Tapachula e il Ciudad Juarez, in cui ho accolto 700mila persone, ho terminato una casa del migrante anche qui, frutto di sacrifici, aiuti, collaborazioni, sudore. Ma sono felice, perché presenteremo un’opportunità importante a chi cerca un futuro in questa terra che può offrire tanto.

Il Messico è un grande Paese, ma ha tanti problemi. Cosa potrete dare alle folle di disperati che arriveranno nel cuore di questa nazione dopo aver superato cento pericoli?
Lavoro. Il dono più importante per il riscatto, e la dignità della persona. Stiamo lavorando per ottenere il riconoscimento da parte delle istituzioni messicane per i corsi di informatica certificati da Cisco e Microsoft che offriremo. I ragazzi ambiscono a trovare un posto da lavapiatti o da giardiniere a New York, sicuramente pagato meglio che in Honduras, Nicaragua o Messico. Noi offriamo un lavoro che dia un trattamento economico dignitoso a chi cerca una nuova vita.

Chi saranno gli ospiti di questa nuova struttura?
Come ci insegna il Vangelo, accoglieremo Gesù, straniero, e gli daremo da mangiare. Arriveranno dall’Ecuador, scappando da uno dei posti più pericolosi dell’America, dal Nicaragua, e dal Venezuela, terra in uno stato di agitazione permanente. Giovani donne, spesso violate, ragazzini soli.

Non è questa la prima periferia che esplora. Dall’Italia al Messico, un lungo viaggio che lega la terra bergamasca, dove padre Flor nasce, all’arido deserto del Cañon del Muerto, al confine con gli Usa, dove apre la seconda casa. Cosa ha imparato?
Qui ho scoperto cosa significa essere nomadi. Guardare sempre al domani, con una dimensione di futuro nuova. È una tappa arrivata dopo un cammino lungo, che parte dall’Italia.

Figlio di un partigiano vissuto in Val d’Ossola, sa com’è vivere lontani da casa. Da ragazzo volle diventare Scalabriniano, ha sperimentato l’essere nomade, spostarsi, sin da quando ha terminato gli studi alla Gregoriana. Qual è stata la prima missione?
Sono stato prete operaio al porto di Genova, poi sulle navi che andavano in Giappone, infine in Africa, tra Mozambico e Angola. Nel 1985 arrivo in Messico. Qui scopro la vita delle frontiere, i popoli in fuga per la fame, la guerra e la violenza.

Dove trova il tempo per tirare il fiato?
All’alba, al momento della riflessione silenziosa che apre le mie giornate.

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