Formazione

Quel dibattito con Romiti

L'editoriale di Riccardo Bonacina sul tema della responsabilità sociale d'impresa.

di Riccardo Bonacina

Tra l?1 e il 15 novembre, l?agenda di Vita ha segnalato ben 15 tra incontri, convegni, seminari su responsabilità sociale di impresa e dintorni. L?apoteosi di tanta convegnite cade proprio mentre leggete con la terza Conferenza europea sul tema, che si svolge a Venezia, presso la Fondazione Cini promossa dal governo italiano, presidente di turno della Ue.Tale quantità di chiacchiere, beninteso non tutte inutili, sono l?indubbio segno che il benessere sociale e il Welfare che verrà (se verrà) sia questione di tutti e non solo e non più di uno Stato peggio che leggero, indigente. Il problema è che restano confusi i contorni dei diversi ruoli che gli attori chiamati a una parte in scena possono giocare (istituzioni, imprese, Terzo settore, lavoratori, consumatori), così come le regole di una relazione possibile tra questi diversi protagonisti. In questo contesto ci è parso interessante il contributo di Marco Vitale (pubblicato dalla rivista Il Ponte). Vitale ricorda quanto Romiti nel 1988, ai tempi in cui era al timone della Fiat, aveva affermato: «Penso che quando uno ha la responsabilità del comando di un?azienda, deve preoccuparsi degli interessi dell?azienda, e soltanto di quelli. In altre parole, deve avere un obiettivo che viene prima di qualsiasi altro: far funzionare l?azienda al meglio e farle conquistare il maggior profitto possibile. Dei riflessi sulla società ci si deve preoccupare in altre sedi». Una posizione cui Vitale replicò, nel suo corso in Bocconi, affermando: «Se il management non è capace di mediare e bilanciare i diversi interessi, privati e pubblici, che si intersecano in quel nodo complesso che è l?impresa; se quello che avviene intorno all?azienda è solo affare degli altri, significa istituzionalizzare un puro schema conflittuale. Vuol dire istituzionalizzare la guerra civile. E il manager diventa poco più che un uomo d?armi». E aggiungeva: «Attenzione, condivide l?idea di Romiti anche chi, convinto che l?impresa persegua esclusivamente il profitto, chiede che si elabori un?etica degli affari, un sistema di limiti e freni che contengano e delimitino l?energia intrinsecamente negativa. Entrambe queste visioni sono epigoni di culture ottocentesche buone ormai per chiamare a raccolta eserciti di cafoni pronti a farsi guerra?. Il ricordo di un dibattito di 15 anni fa serve a Vitale per ricordare quale sia il nodo della questione: dove consiste la legittimazione dell?impresa, di capitale o cooperativa? Nel fatto che essa è produttrice di sviluppo. Il profitto, in questa concezione, è strumento di sviluppo. Perché il profitto senza sviluppo è profitto senza qualità; senza progresso tecnologico e senza innovazione, è profitto clientelare, è profitto che devasta la terra, le risorse, le città, è profitto contro gli interessi collettivi. E se il profitto è sterile o fertile non lo può stabilire solo il management e neppure un solo stakeholder, ma l?insieme dei portatori di interesse. Questo è il punto, questa è la scommessa cui rispondere. L?etica degli affari è solo un catechismo futile, una mediocre parafrasi del codice penale o civile, o peggio, dei dieci comandamenti. Parafrasi buone per nascondere nefandezze e lavoro nero.


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