Un velo pietoso si è steso sulla trasmissione televisiva Mission: per carità, non vogliamo nuovamente alzarlo, tutto e di più è già stato scritto. Resta solo la forte sensazione che parlare dell’Africa, della sua gente, delle crisi dimenticate con un programma di approfondimento, magari su Rai Tre, forse avrebbe avuto lo stesso esito in termini di audience e più efficacia.
Quello che resta da questi mesi in cui si comunque, in qualche modo, la finestra sul mondo della cooperazione, della solidarietà, dei conflitti dimenticati si è aperta è una non esaltante sensazione di aver perso l’occasione di proporre una nuova lettura del mondo e delle sue interdipendenze. Una lettura capace di far crescere la consapevolezza e la cultura della solidarietà.
Il mondo delle Ong italiane vi ha rinunciato da tempo: troppo impegnato a sopravvivere o solidificarsi ed ampliarsi per rappresentare, come faceva fino a qualche anno fa, una scuola di impegno e di crescita per le nuove generazioni. Qualcuno dice che fare il cooperante sia diventato ormai un mestiere più che una passione: non è vero, ci sono cooperanti in prima linea che, giustamente pagati, si fanno in quattro per migliorare il mondo, così come ci sono ancora persone di tutte le età che abbandonano ogni agio e partono a loro spese per imparare ad essere migliori dalla dignità di popoli lontani.
La retorica della crisi italica ci sta rubando, fra le tante cose, la capacità di sentirci parte di un Pianeta vasto e complicato, la possibilità di voler riscattare con una vita e una politica nuove secoli di oppressione coloniale e non solo. Secoli che ci hanno permesso di essere quello che siamo, nel bene e nel male, nel bello e nel brutto.
Quello che al massimo riusciamo a fare è scagliarci contro l’Europa e la Bce, dimenticandoci peraltro, che c’è chi da anni e anni denuncia a gran voce i danni delle ricette economiche e finanziarie delle grandi istituzioni internazionali. Modestia a parte, il pelo alla Banca Mondiale o al Fondo Monetario Internazionale noi lo facciamo già da tempo.
La lettura dell’impoverimento globale in Italia oscilla fra la pietà per il povero bimbo con la pancia gonfia e lo stupido cinismo di chi si sente più povero dei poveri anche se non lo è. Anzi, anche se lo è solo di risorse personali. C’era una scuola, noi ne abbiamo fatto parte, che invece dentro le Ong ti rendeva un cittadino migliore e ti costringeva ad interrogarti anche su come i meccanismi globali che perpetuavano la povertà ti arrivavano sotto casa. Quella scuola, fatta di maestri laici e cattolici e di personaggi che hanno significato molto, oggi è in crisi profonda, non riesce più a ricrearsi. E quei personaggi non condividono più i loro saperi e la voglia di cambiare le cose.
Eppure il mondo cambia e c’è sempre più bisogno di saperlo leggere anche perché i media che scrivono sotto dettatura, cioé quasi tutti, non sono in grado di farlo.
Qualche mese fa una splendida associazione che si chiama Re:Common ha fatto un lavoro molto utile: ha preso in mano tutti i falsi miti della cooperazione internazionale, quelli che creano caricature e storture e in fondo in fondo ci rendono anche incapaci di leggere le migrazioni e quindi più razzisti, li ha sviscerati e ha proposto una lettura diversa. Smentendo per esempio che sia il nord a trasferire ricchezza al sud; che esista ancora un confine geografico fra la povertà e la ricchezza; che il sud sia indebitato con il nord e non viceversa; che siamo noi a poter e dover insegnare ai paesi impoveriti come usare le proprie risorse e che le grandi infrastrutture sradichino la povertà; che il colonialismo sia finito; che lo sviluppo così come lo intendiamo noi porti con sé pace e rispetto dei diritti umani; e infine la grande idiozia di moda che sia tutta colpa della Cina, sempre.
A guardarlo il mondo scopri che è impossibile capirlo. Ma a cercare di leggerlo coi giusti occhiali realizzi che è arrivato il momento di iniziare a conoscerlo. Ecco perché questo post è iniziato citando il programma di Rai Uno Mission e poi l’ha abbandonato subito dopo. Perché è arrivato il momento di ricominciare intanto a praticare o diffondere la cittadinanza globale, con occhi e linguaggi nuovi.
Tutto questo riguarda tremendamente anche le sorti del nostro Paese.
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