Non profit

«Quei troppi vincoli che portano alla paralisi»

di Giuseppe Frangi

segue da pagina 33
SJ: Qualche beneficio fiscale avrebbe aiutato?
Menetti: Certo da parte dei potenziali candidati a diventare imprese sociali, alla fine ci si è chiesti, a fronte dei vincoli, dove stesse la convenienza. Ma non credo ci sia solo questo aspetto. Credo si debba ammettere che anche nel mondo del non profit si è spesso specularmente assecondato questo approccio più statico che dinamico del legislatore. Si è molto a lungo, ed in parte ancora adesso, rimasti alla discussione focalizzata sugli aspetti tecnico legislativi, sugli aspetti definitori ed identitari, spesso anche con un marcato intento difensivo. Si è rischiato di rinchiudersi in una enclave soprattutto teorica per addetti ai lavori, nella quale i tratti di autoreferenzialità dei dibattiti sono apparsi a volte innegabili. Mentre è rimasta nell’ombra la questione fondamentale: a che cosa serve una legge come questa, per cosa, per quali politiche nazionali e regionali è utile, e necessario, che questa figura di impresa cresca e si sviluppi. Per questo l’impresa sociale non ha destato sinora un grande appeal: né chi l’ha approvata né chi l’avrebbe dovuta far camminare si sono concentrati a sufficienza sulla connessione imprescindibile tra promozione di questa forma innovativa, l’impresa sociale, e innovazione nel sistema di welfare.
SJ: E se dovesse rispondere ora lei alla domanda lasciata inevasa – a che cosa potrebbe servire l’impresa sociale – come risponderebbe?
Menetti: Negli ultimi mesi abbiamo discusso molto del Libro Verde del ministro Sacconi, in cui di impresa sociale non si parlava proprio, nonostante si ribadisse l’obiettivo di un nuovo welfare orientato alla sussidiarietà e a un rapporto nuovo tra pubblico e privato. Ma l’unico privato che entrava in gioco era quello tradizionale, quando invece quel “ridisegno” implica un ben diverso ruolo del privato a vocazione sociale. L’impresa sociale doveva servire a costruire questo polo, a rendere questo polo forte, trasparente e leggibile. Il fatto è che oggi si parla poco di impresa sociale così come si parla poco di welfare. Il rischio vero, con l’aggravarsi della crisi, è che se ne parli sempre meno.
SJ: Perché il terzo settore è stato così timido di fronte all’impresa sociale?
Menetti: Forse ha prevalso un approccio difensivo, la preoccupazione di non aprire troppe porte. Con motivazioni anche fondate e significative, anche da parte della cooperazione sociale. Tuttavia questo flop pesante, alla fine, è un insuccesso per tutti, e rischia di essere segnale di una debolezza, ben più che di una forza. E di un pericolo di essere “confinati” in un perimetro in qualche modo residuale.
SJ: A questo punto in che modo la cooperazione sociale può avere un ruolo nel rilancio della 155?
Menetti: Deve avere un ruolo, in primo luogo perché è la prima e principale realtà di impresa sociale effettivamente esistente in questo paese. L’altro motivo è che pensare a un’evoluzione del sistema di welfare fondata soltanto sull’intervento pubblico e sul privato lucrativo non è una soluzione. Perché nessuno dei due è in grado di intercettare e rispondere in modo esaustivo all’emergere di nuove domande e di nuovi bisogni.
SJ: La scommessa è allargare le strategie di impresa?
Menetti: Sì, questo aspetto c’è, e certo non è marginale. La legge dice alcune cose per noi interessanti. Ad esempio si prevede un allargamento delle possibili attività delle imprese sociali a settori come quello della formazione, o agli interventi di carattere culturale e ambientale. Però il problema fondamentale resta sempre lo stesso: si deve costruire un sistema che dell’impresa sociale riconosca non solo l’esistenza ma l’utilità sociale, e di conseguenza la sostenga costruendo percorsi strutturati. C’è un altro elemento: crediamo che questo terzo polo, quello dell’imprenditoria sociale, non debba essere solo caratterizzato dall’assenza di lucro come fattore sostanziale. Pensiamo che siano decisivi anche gli aspetti di democraticità della gestione, le pratiche fondate sulla partecipazione dei diversi stakeholder, la relazione con il territorio, la capacità di sviluppare legami sociali. La legge sull’impresa sociale alcuni di questi punti li recupera ma si poteva fare uno sforzo maggiore. Forse si è pagata una timidezza determinata dalla larghezza di consenso che si è cercata. Su questi aspetti il ruolo che la cooperazione sociale può giocare è, credo, insostituibile
SJ: Tra i fenomeni più visibili c’è la massiccia adesione di scuole paritarie al nuovo tipo di impresa. È un effetto distorsivo della legge o semplicemente hanno saputo cogliere l’opportunità?
Menetti: Penso sia stata prevalente la capacità di cogliere l’opportunità, per quanto quello delle scuole paritarie sia un tema piuttosto caldo. Per cui dico: scuole paritarie come imprese sociali? Perché no. Dal rischio delle distorsioni ci si cauteli con azioni di controllo, non chiudendo a priori le porte.


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