Cinema
Quei ragazzini capitani-per-forza sono davvero degli eroi
Non scappano, inseguono i propri sogni. Non sono scafisti, sono eroi. "Io Capitano", il film di Matteo Garrone che ha vinto il Leone d'Argento a Venezia ha tre grandi pregi: racconta la migrazione così com'è; fa scattare l'empatia; mette in discussione alcuni stereotipi. Per questo è diverso da tutti gli altri film. Lo abbiamo visto con Roberta Lo Bianco, che le storie dei minori migranti soli le conosce benissimo
Un film potente, «il migliore che sia stato fatto fino ad oggi» sui viaggi della speranza che portano tanti migranti a rischiare la vita pur di arrivare in Europa. Roberta Lo Bianco commenta così Io Capitano, il film di Matteo Garrone che ha vinto il Leone d’Argento – premio per la migliore regia a Venezia: al protagonista Seydou Sarr è andato il Premio Marcello Mastroianni dedicato ai giovani attori emergenti.
Socia fondatrice di Moltivolti e responsabile della progettazione sociale di questa impresa sociale nata nel cuore di Ballarò a Palermo, dove si fa cucina sociale parlando in 25 lingue diverse, Lo Bianco ha incontrato decine e decine di storie di minorenni migranti soli, che ha ritrovato senza fronzoli nel film. Io Capitano è diverso perché «dà un volto umano al dramma delle rotte, ci fa entrare dentro gli sguardi, i desideri e le paure dei due giovani. Per alcuni attimi ci sentiamo anche noi nel deserto a camminare senza sosta o dentro la prigione libica ad avere terrore. Empatizziamo», dice. «E il pubblico occidentale ha bisogno di sapere, sentire, immergersi in queste storie… probabilmente da questa immedesimazione potrà nascere una maggiore curiosità, il desiderio di capire meglio cosa succede nella parte Sud del mondo, la volontà di rompere alcuni schemi e di sviluppare più strumenti di decodifica della comunicazione mainstream, che invece fomenta l’odio. Sicuramente non è un film per le persone che hanno vissuto quell’esperienza migratoria».
Io Capitano dà un volto umano al dramma delle rotte, ci fa entrare dentro i desideri e le paure dei due giovani. Per alcuni attimi ci sentiamo anche noi nel deserto o dentro la prigione libica. Empatizziamo. Probabilmente da questa immedesimazione nascerà il desiderio di capire meglio cosa succede nel Sud del mondo
Roberta Lo Bianco, socia fondatrice di Moltivolti
Dopo aver visto Io Capitano, il suo giudizio a caldo qual è?
Prima di rispondere devo fare una premessa: non mi piace affatto, anzi mi fa stare male, la grande disuguaglianza esistente nell’esercizio di un diritto “universale” quale quello ad una mobilità sicura, che è l’humus da cui parte Io Capitano. I cittadini dei Paesi del Sud del mondo sono le principali vittime del deterioramento di questo diritto fondamentale alla mobilità: un diritto “universale” a parole, ma che nei fatti consente solo ai cittadini dei Paesi ricchi di viaggiare, scegliendo qualsiasi meta il loro passaporto garantisca. Non sto parlando solamente di cittadini di serie A e cittadini di serie B: il discrimine, piuttosto, è tra cittadini/individui liberi e cittadini/individui perennemente tenuti in catene. Questa precisazione è importante per poter affermare cosa mi piace di Io Capitano. La mia impressione è che c’è bisogno di film come questo per svegliare le coscienze e per contrastare una propaganda che si basa sulla presunzione tutta eurocentrica per cui è giusto mantenere le disuguaglianze esistenti nell’esercizio dei diritti e secondo cui il miglior modo per “regolare” un fenomeno naturale come la migrazione sia quello di alzare muri a difesa dei confini e “costringere” le persone che per varie ragioni decidono di partire a invischiarsi in reti criminali, diventando vittime di un sistema perverso, per cui chi intraprende un viaggio migratorio mette a repentaglio la sua vita e i suoi equilibri psicologici ed emotivi.
Qual è la cosa che ha apprezzato di più?
Il mio punto di vista è condizionato dalle numerose storie di migrazione che ho accolto, soprattutto di minori. Mi è piaciuto molto il fatto che il film sia stato realizzato nella lingua madre dei due ragazzi, il wolof, perché questa scelta permette ai protagonisti di accompagnarci nelle dimensioni più autentiche del loro sentire, non filtrate. Ascoltare il film in lingua originale a me ha reso tutto più autentico, più vero. A Palermo tuttavia ho visto degli spettatori uscire dal cinema, probabilmente perché non erano disposti a fare lo sforzo di lettura dei sottotitoli per una lingua considerata una non-lingua ufficiale. Devo anche dire che la trama del film corrisponde alla realtà, non è affatto romanzata, se non in due scene: quella di una allucinazione causata dalla fatica del cammino nel deserto, quando Seydou vede volare in aria il corpo di una donna morta e quella del sogno in carcere, in cui un angelo lo porta a trovare sua madre. Questi due momenti diventano un rifugio della mente, per superare qualcosa che è all’estremo della sopportazione umana. Il regista ha sì raccontato un percorso migratorio fra i tanti – quello di minori che affrontano il viaggio senza riferimenti adulti, genitoriali o non – ma allo stesso tempo questa storia ha molte cose in comune con altri percorsi migratori della rotta mediterranea. Certo ogni viaggio è diverso, cambiano le motivazioni, la durata della permanenza in Libia, la quantità di abusi, torture e maltrattamenti, il fatto che ci sia o meno il sostegno della famiglia… cambia purtroppo anche l’esito del viaggio. Ma tanti di questi percorsi in qualche modo ci sono sullo sfondo del film, anche se il regista ha deciso di raccontare la storia di Seydou o Moussa, che è così potente, coraggiosa e “harraga”.
Ho apprezzato molto il fatto che il film sia stato realizzato nella lingua madre dei due ragazzi, il wolof: questa scelta permette ai protagonisti di accompagnarci nelle dimensioni più autentiche del loro sentire, non filtrate
Roberta Lo Bianco
Che cosa manca secondo lei?
Dinanzi a un fenomeno umano così complesso e articolato, credo che il regista abbia dovuto necessariamente scegliere cosa raccontare. Mi permetto solo di dire che mi sarebbe piaciuto vedere una denuncia più esplicita delle responsabilità delle politiche europee in materia di migrazione e degli accordi Italia-Libia nel “fabbricare” quei trafficanti, quella gente senza scrupoli che mette in mano a un sedicenne un mercantile sfasciato, con centinaia di persone a bordo. Sarebbe stato importante invece mostrare tali responsabilità, anche solo mostrando il comandante Bija – già segnalato dalle Nazioni Unite come uno dei peggiori trafficanti di esseri umani, pagato dall’Italia – nella delegazione libica in visita in Italia. Il rischio è che i “non addetti ai lavori” non colgano le profonde collusioni esistenti tra polizia corrotta libica e membri di alcune milizie, di giorno travestiti da guardia costiera libica e di notte trafficanti che decidono chi mettere in mare, costringendo alcuni passeggeri a prendere il timone. Questo “vuoto” rischia di portare le persone a pensare che tutti i libici siano cattivi e corrotti e che i migranti “se la siano cercata” recandosi in Libia.
Mi sarebbe piaciuto vedere una denuncia più esplicita delle responsabilità delle politiche europee in materia di migrazione e degli accordi Italia-Libia. Sarebbe stato importante invece mostrare tali responsabilità
Roberta Lo Bianco
Qual è il dettaglio che da esperta del tema ha colto, che magari a noi sfugge?
Garrone ha scelto di non raccontare di minori che scappano da situazioni fortemente violente, da conflitti e persecuzioni, da povertà estrema, da sistemi dittatoriali: condizioni che in realtà riguardano moltissimi dei minori che si mettono in viaggio verso l’Europa. Ha deciso invece di raccontare di una Dakar dai legami forti, con una comunità che avvolge, con madri che si preoccupano e momenti allegri di condivisione. A me questa scelta del regista rimanda alla sacrosanta libertà che ciascun uomo ha di poter scegliere la propria vita, i propri obiettivi, i propri sogni: scegliere di sognare anche quei sogni che sono collocati in un luogo che appare inaccessibile. Fra l’altro io sono convinta che proprio il fatto di non avere il diritto di poter venire in Europa “a giocarti la tua possibilità” attraverso un semplice visto e un volo sicuro, non faccia altro che alimentare i sogni coraggiosi e rischiosi di molti giovani. Sogni alimentati da una tv che ti mostra le cose belle dell’Europa e dai racconti di amici o conoscenti che spesso nascondono la verità sulla loro migrazione, perché altrimenti – dopo aver rischiato la vita e aver fatto spendere tanti soldi alla loro famiglia (soprattutto se vieni rapito dalle milizie criminali in Libia, che ti minacciano e torturano, come il film mostra, affinché tu ti faccia mandare dei soldi per il “riscatto”) – dovrebbero ammettere che la loro vita in Italia non è come si aspettavano: non possono farlo, perché questo sarebbe vissuto come un fallimento. È un circuito vizioso senza fine. Nel film questa dimensione è rappresentata dalla figura del saldatore senegalese: noi intuiamo che è ritornato in Senegal e che è arrabbiato… per questo perde la pazienza con i due ragazzi che vogliono partire per L’Europa e gli chiedono consiglio.
Ha scritto che Io capitano è un film potente, «il migliore che sia stato fatto fino ad oggi». Perché?
Io Capitano offre uno sguardo alla migrazione diverso rispetto ad altri spettacoli teatrali o film che ho visto in passato: dà un volto umano al dramma delle rotte, ci fa entrare dentro gli sguardi, i desideri e le paure dei due giovani, per alcuni attimi ci sentiamo anche noi nel deserto a camminare senza sosta o dentro la prigione libica ad avere terrore. Empatizziamo. Il pubblico occidentale ha bisogno di sapere, sentire, immergersi in queste storie… probabilmente da questa immedesimazione potrà nascere una maggiore curiosità, il desiderio di capire meglio cosa succede nella parte Sud del mondo, la volontà di rompere alcuni schemi e di sviluppare più strumenti di decodifica della comunicazione mainstream, che invece fomenta l’odio. Sicuramente non è un film per le persone che hanno vissuto quell’esperienza migratoria.
Il film mette l’accento anche emotivamente sulla contraddizione stridente fra un “capitano” orgoglioso di aver portato in salvo tante vite e il fatto che al suo arrivo sia criminalizzato come scafista. Eroi o colpevoli, quindi, questo è il dilemma. La risposta a questa domanda può venire solo dall’emozione e dalla maggiore e o minore empatia?
Questa è la denuncia più esplicita che ritrovo nel film: la criminalizzazione dei capitani. A Seydou viene proposto di guidare l’imbarcazione per ottenere uno sconto sul viaggio suo e di suo cugino. Lui accetta, in maniera incosciente. Quando si rende conto che si tratta di una impresa veramente difficile, ha paura ma capisce anche che in realtà non ha scelta. Seydou è stato davvero un capitano tenace, umano e coraggioso. Ha salvato, portandole a terra, più di un centinaio di persone. Ha tenuto duro anche quando dal telefono satellitare la voce gli fa capire chiaramente che non c’era nessuna intenzione di andarli a salvare e con grande delusione dice: «Non ci volete salvare». Seydou sembra non sapere che i capitani sono criminalizzati in Italia e in Europa e che gli scafisti sono paragonati ai trafficanti sia dall’opinione pubblica che dalle leggi. Con questa poca consapevolezza quando avvista terra urla più e più volte con orgoglio: “Io sono il capitano”. In quel momento in realtà tutti noi parte del pubblico ci sentiamo orgogliosi, perché insieme a lui siamo riusciti a portare in salvo tantissime persone. Ecco, io spero davvero che le persone possano comprendere che i capitani, il più delle volte, sono ragazzini costretti dai trafficanti-milizie libiche a guidare l’imbarcazione. Ragazzi che sentono il dovere di portare se stessi e tutte le persone a bordo vive e al sicuro. Da questo punto di vista per me sono davvero degli eroi e non ho timore di dirlo. Mi piace che Garrone abbia messo in luce questo aspetto.
Seydou è stato davvero un capitano tenace, umano e coraggioso. Ha salvato, portandole a terra, più di un centinaio di persone. Quando avvista terra urla con orgoglio: “Io sono il capitano”. In quel momento tutti noi ci sentiamo orgogliosi.
Roberta Lo Bianco
Quest’estate si è tornati a gridare all’allarme per i minorenni migranti soli. All’11 settembre 2023 sono 11.630 i minori stranieri non accompagnati sbarcati sulle coste italiane, contro i 14.044 sbarcati in tutto il 2022. Al 31 luglio i Msna presenti in Italia erano 21.710. In realtà non c’è stato un boom di arrivi, ma la fatica che l’Italia sta vivendo deriva da un sistema di accoglienza per i minori che non è mai stato avviato in maniera adeguata e che ora mostra tutte le sue falle. Qual è oggi il problema più grande per i minori stranieri non accompagnati?
Intanto evidenzio che l’età di partenza e di arrivo dei minori che intraprendono un viaggio senza riferimenti parentali è andata calando: a Palermo arrivano minori che hanno 14 o 15 anni e questo è un dato importante perché siamo di fronte ad una “teen migration”. Sono ragazzi molto più che ragazze (questo è l’aspetto che negli anni non è mutato), che risultano per molti versi “fuori scala” rispetto alle nostre abituali categorie di “adolescente”, “minore/maggiorenne”, “autonomia”, categorie che orientano anche la nostra presa in carico. Spesso in realtà abbiamo di fronte persone con storie traumatiche e di rottura, molto diffidenti verso gli adulti, con un’idea incerta di futuro, che mettono in “crisi” i professionisti dell’accoglienza che continuano a muoversi dentro parametri, visioni lineari di crescita, programmazioni e sguardi strategici che risultano estranei a questi giovani. L’attività di “disciplinamento” del minore, molto spesso è a lui estranea nella forma e nella sostanza. Insomma, è chiaro che le storie e i modi di essere di questi giovani necessitano di nuove forme di pensabilità, di conoscenza e di intervento, meno codificate e più aperte a tenere in considerazione il bagaglio culturale ed esperienziale del minore.
Siamo di fronte a una teen migration dove però i ragazzi, per l’esperienza che hanno fatto, risultano “fuori scala” rispetto alle nostre abituali categorie di adolescente o autonomia. Mettono in crisi gli operatori. La nostra presa in carico deve cambiare
Roberta Lo Bianco
Un altro aspetto riguarda l’urgenza di inviare soldi alle famiglie: questa urgenza spesso li spinge a cercare qualsiasi lavoro purché sia un lavoro, ad entrare facilmente in dinamiche di sfruttamento e spesso maltrattamento. Questo ha un impatto sulla loro autostima e sulle loro aspettative di qualità di vita: vengono deposti sogni, interrotti percorsi scolastici (a parte la licenza media) nonostante ci sia un grande desiderio di continuare gli studi (anzi spesso questo è uno dei motivi che spinge i minori a partire). Ci troviamo di fronte purtroppo ad un sistema di accoglienza che sebbene abbia affinato alcune pratiche di prima accoglienza (soprattutto nello “svuotare” velocemente gli hotspot), ha ancora tanto da fare per quanto riguarda la seconda accoglienza.
Alcune immagini dal film Io Capitano. Per questo film Matteo Garrone ha vinto il Leone d’Argento per la miglior regia al Festival del cinema di Venezia 2023
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