Cultura

Quei giovani che hanno perso tutto, persino l’età

Tirana-Roma. Ecco cosa accade a migliaia di minori albanesi che sbarcano in Italia

di Barbara Fabiani

Ormai non c?è gommone che attraversi l?Adriatico che non abbia tra il suo carico umano decine e decine di minorenni. Qualche centinaio di marchi nascosti negli slip, i vestiti che ha indosso e sedici anni tenuti stretti tra i denti sono tutto il bagaglio di un adolescente che emigra dal ?Paese delle aquile? verso l?America a forma di stivale.
Lo scorso anno soltanto al Centro Pronto Intervento Minori del Comune di Roma sono stati ospitati ben 92 giovani albanesi, quasi la metà dei 226 ragazzi seguiti da questa struttura gestita dalla Caritas diocesana. Età media sedici anni e mezzo, e quasi tutti maschi. Qui trovano vitto, alloggio e la possibilità di inserimento in una casa famiglia fino alla maggiore età, ma ciò a cui ambiscono è il permesso di soggiorno. «Non pochi arrivano da noi con il nostro indirizzo in tasca o quello di altre strutture analoghe», ci dice Gianni Fulvi, dalla cui idea nacque il centro nel 1988, «Glielo scrivono gli amici che sono stati qui prima di loro. Alcuni sono già informati su come richiedere il permesso di soggiorno in quanto minori non accompagnati; molti di quelli portati qui dalle forze dell?ordine rinunciano alla fuga quando capiscono di poter essere regolarizzati». «Vivono il permesso di soggiorno come fosse un secondo certificato di nascita perché li protegge dal rimpatrio, ma il vero obiettivo è trovare un lavoro e guadagnare», aggiunge Nadio La Gamba che da un paio d?anni ha sostituito Fulvi alla direzione, «È per questo che emigrano, affrontando difficoltà enormi rispetto la loro età».

La nostra Albania. parola di Gjovalin
«In Albania non c?è niente». Così rispondono laconici tutti i ragazzi quando sono intervistati dagli operatori del centro.
Dai loro racconti il contesto sociale nelle città albanesi sembra uno di quei film sul ?dopo disastro nucleare? che andavano di moda negli anni ?80. Il medioevo, invece, è rimasto arroccato sulle montagne dell?interno. Gjovalin ha vissuto da solo nella casa del padre da quando aveva 13 anni, i genitori lo hanno lasciato lì dopo il divorzio, affidandolo alla nonna che però non viveva con lui. Da quell?età si è mantenuto da solo con lavori umili e faticosi, guadagnando, nei periodi buoni, 10 mila lire al giorno. Per un paio d?anni è stato aiutato da uno zio ma la moglie di quest?ultimo ha preteso che smettesse, perché toglieva attenzioni e soprattutto denaro al suo nucleo familiare.
Gjovalin quindi è cresciuto da solo e non si è mai ficcato nei guai. Ma a sedici anni non ce l?ha fatta più a sopportare la sua povertà. Disse alla nonna che voleva andare in Italia, come avevano fatto molti suoi amici, e fu lei a organizzare tutti i contatti con gli scafisti. Avere i genitori non è bastato a trattenere Sander nella sua città nel nord dell?Albania. Frequentava le scuole superiori, ma come buona parte dei suoi coetanei non le ha completate. Di temperamento timido e riservato, passava le giornate in camera sua , come ha raccontato al suo arrivo al centro, sfuggendo ai rapporti aggressivi che governavano la sua città.
Un giorno, guardando il nulla dalla sua finestra, ha deciso che era ora di andarsene. I genitori non l?hanno incoraggiato ma neanche fermato, sperando per il figlio in un?opportunità che per loro, entrambi disoccupati da diversi mesi, sembrava non esistere più.
Qualunque fosse stata la reazione di padre e madre, Nikolin, non avrebbe fatto un passo indietro. Ha sempre fatto di testa sua, ultimo maschio di una famiglia numerosa. Non aveva ancora 14 anni quando volle cercarsi un lavoro. Si svegliava ogni giorno all?alba e, dal suo paese, raggiungeva il porto di Durazzo su una vecchia corriera che sobbalzava sulla strada sconnessa. Malgrado la sua corporatura minuta, su quelle banchine ha fatto il facchino per due anni. Probabilmente fu proprio il suo lavoro a suggerirgli come superare la frontiera: un giorno il fratello maggiore salì su un traghetto di linea e lo portò a Brindisi e di là fino a Foggia, chiuso in una valigia.

La traversata e il taxi italiano
Del viaggio in mare sui gommoni i ragazzi non parlano volentieri. Il freddo, la paura, la violenza degli adulti che regolano questo commercio e che li ridimensiona bruscamente al loro stato di ragazzini soli, sono ricordi che preferiscono non evocare. Arrivati sul nostro litorale, alcuni di loro hanno detto di aver trovato dei tassisti italiani ad aspettarli ai bordi della strada vicino alle spiagge e che li hanno caricati – in tre o in quattro per volta – sui loro mezzi, portandoli alla stazione ferroviaria più vicina. Prezzo della corsa da 200 mila lire a testa, per pochi chilometri.
Più spesso i clandestini aspettano sulla spiaggia l?arrivo dei complici degli scafisti che li trasportano su dei furgoni. In questo caso i pericoli non sono ancora finiti. Gjovalin ci racconta di essere stato picchiato e derubato dai due uomini che lo avevano prelevato dalla spiaggia con gli altri. Lasciato nei pressi di una stazione si è nascosto su un treno che andava a Roma. Senza un soldo in tasca, ha vissuto per tre giorni nei dintorni della stazione Termini, dormendo sui cartoni e subendo una seconda aggressione da parte di altri emarginati. Qualcuno ne ha avuto pietà e lo ha accompagnato dai carabinieri. Lì il Gjovalin ?uomo? si è dissolto, persino i suoi diciassette anni sono sembrati troppi: ha cominciato a piangere, chiedendo cibo e un posto per dormire. Ed è grazie a un maresciallo ?padre di famiglia? che il ragazzo è stato condotto al Centro di prima accoglienza della Caritas. Nikolin invece è rimasto per alcuni mesi a Foggia, dividendo la sua clandestinità con il fratello maggiore e vivendo con lui in un edificio abbandonato. Venne rimpatriato e per un altro anno ha ripreso a fare il facchino al porto di Durazzo. Poi, un giorno, questo ragazzino che pesa 45 chili si è aggrappato sul fondo un camion che si stava imbarcando su un traghetto ed è tornato in Italia. Tra pochi mesi compirà 18 anni e spera di avere l?autorizzazione a raggiungere il fratello, che nel frattempo ha trovato lavoro in una fabbrica del Nord.

In cerca di accoglienza
Non c?è dimensione più realistica e concreta del disagio sociale dei luoghi di frontiera; non è quindi per un pregiudizio che gli operatori sociali definiscono i giovani albanesi come ragazzi difficili e con particolari problemi di adattamento. Aggressivi, suscettibili e in un continuo atteggiamento di sfida, il più delle volte rifiutano i programmi di alfabetizzazione e altre iniziative educative. Quello che vogliono è il permesso di soggiorno e un lavoro ben pagato, anzi quasi lo pretendono. «È come se una volta arrivati subissero una specie di regressione psicologica», spiega Nadio La Gamba. «Loro che hanno dimostrato uno spirito di iniziativa e una resistenza eccezionali per la loro età , tornano ?piccoli? e pretendono tutto con la petulanza dei bambini».
I ragazzi albanesi sono anche quelli più difficili da collocare nelle case famiglia e nelle comunità: sono accusati di essere litigiosi e violenti, di non rispettare gli ambienti comuni, di avere atteggiamenti discriminatori nei confronti delle donne e di essere razzisti verso coetanei di altre nazionalità, in particolare verso i neri. Secondo Emanuela Del Re , uno dei più autorevoli esperti sull?Albania, questa aggressività si spiega con la ?cultura della diffidenza? che fa da sfondo al sistema di valori albanese. «L?individuo esiste solo in funzione della sua famiglia di origine, soltanto presso di essa si sente al sicuro; gli viene insegnato a considerare tutti, compresi gli altri albanesi, come estranei di cui diffidare», sostiene Del Re. «In alcuni centri rurali la vita è ancora come quella delle società pre-industriali. Vigono comportamenti maschili autoritari, la scarsissima considerazione della donna, ma soprattutto la chiusura verso l?esterno e il rifiuto del diverso nascono da questo contesto culturale arcaico».
Fare un ?buon lavoro su questi ragazzi?, come si esprimono gli operatori, non è un?impresa facile ma nemmeno impossibile. Sander ha seguito un breve corso professionale, Nikolin sta frequentando le 150 ore per prendere la licenza media, Gjovalin vuole fare il piastrellista e continua a scansare la compagnia di coetanei ?poco affidabili?. Questi ultimi sono la preoccupazione maggiore di Gianni Fulvi, il quale non nasconde ci sia, tra i giovani immigrati albanesi, una minoranza attratta più dal denaro che circola in certi ambienti, che dalla prospettiva di lavorare. Questo atteggiamento li rende facile serbatoio per la criminalità. Per questo il fondatore del centro di accoglienza, al di sopra di ogni sospetto xenofobo, ritiene che per alcuni elementi il rimpatrio assistito sia la soluzione migliore. «Non sto parlando di espulsioni forzate, generalizzate e senza alcun progetto di inserimento in Albania», specifica Fulvi, «ma di affrontare questa situazione con una adeguata capacità di discernimento. Se restano qui certi ragazzi rischiano di finire male».
In alcuni casi si riescono a rintracciare dei parenti in grado di prendersi in carico il minore. Una risorsa da ben valutare, comunque, perché non sono mancati episodi in cui i ragazzi hanno fatto ricorso a dei conoscenti ?prestanome? (anche dietro compenso). Intanto la permanenza in questo centro che dovrebbe essere struttura di prima accoglienza si è allungata fino ai nove mesi. I ragazzi vorrebbero uscire più spesso, girare per Roma autonomamente, avere dei soldi in tasca. Insomma mordono il freno, come tutti gli adolescenti.
Il ?regalo di maturità? consiste nel trasferimento in una struttura di accoglienza per stranieri adulti, dove ci si può trattenere solo per cenare e dormire. «Ma», conclude La Gamba, «senza adeguati meccanismi di inserimento lavorativo e sociale si ottiene solo di ritardare il momento in cui il ragazzo si perde nel contesto italiano. Se poi non si attivano efficaci sistemi di rimpatrio assistito, si rischia di colludere con chi favorisce l?immigrazione clandestina».

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