Ho letto La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, l’ultimo importante lavoro della storica Anna Bravo (Edizioni Laterza, giugno 2013), proprio nei giorni in cui alla Camera dei Deputati si discuteva sui caccia F-35, si votava quella che è stata definita l’ipocrita mozione della maggioranza di governo e si ascoltavano le deliranti dichiarazioni del ministro della difesa sull’armare la pace per amare la pace. E’ stato un salutare antidoto di lucidità. Ed anche un punto riferimento ulteriore, a partire dal quale misurare la lontananza culturale tra chi ha il mandato di gestire i temi fondamentali della vita e della morte (armi e guerre, comunque aggettivate, fatte o risparmiate, di questo trattano) puntando sugli armamenti e i facitori di pace (per dirla, come fa la Bravo, con Alex Langer) cioè tutti coloro che nel Novecento e dopo, in tutte le latitudini, noti o sconosciuti, hanno operato ed operano – dal basso e disarmati – per risparmiare il sangue. E costruiscono storia, perché costruiscono futuro.
“E’ un’idea malsana che quando c’è guerra c’è storia, quando c’è pace no. Il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato”. In fondo è proprio questa idea malsana, questo paradigma culturale nel quale siamo tutti – più o meno – immersi, per cui gli armati fanno la storia e gli inermi non possono che subirla che viene smontato, pezzo dopo pezzo (anzi, esempio dopo esempio, individuali e collettivi) da Anna Bravo, richiamandosi esplicitamente alla cultura che, almeno da Gandhi in avanti, costruisce facendolo un paradigma alternativo.
Eppure, ci tiene a precisare l’autrice, non si tratta di uno studio specifico sulla genealogia della nonviolenza –nonostante richiami le ricerche di Erica Chenoweth e Maria J.Stephan della Columbia University, che dimostrano come tra il 1900 e il 2006 siano state proprio le resistenze civili ad essere di gran lunga più “vittoriose” sul pianeta rispetto a quelle armate – ma sulla più ampia genealogia del sangue risparmiato, cioè delle micro o macro pratiche di riduzione della violenza. Genealogie in parte coincidenti. “La prima entra nella modernità con Gandhi. La seconda con quei soldati della Grande Guerra che si accordavano con il nemico per salvare la propria vita, e la sua, grazie all’autolimitazione della distruttività; e prosegue con i resistenti antinazisti senza armi, i soccorritori dei più vulnerabili, alcuni (criticati) leader politici, i mediatori improvvisati che si interpongono fra i contendenti”. Sono questi, molti, “i titolari del sangue risparmiato, e nella storia della nonviolenza, che ne è la prima intestataria, rientrano per questa via”, anzi, rientrano per questa via nella Storia tout-court. Non solo – e qui sta il punto – sono proprio i facitori di pace i protagonisti della storia che ci interpellano maggiormente, perché dimostrano che ciascuno di noi può esserlo. Eppure (o proprio per questo?), le loro storie sono, per lo più, ampiamente ignorate sia dalla storiografia – per esempio nelle storie della resistenze europee al nazismo o dei conflitti risolti senza l’uso delle armi – sia dai decisori politico-militari – per esempio la lotta nonviolenta del popolo kosovaro, prima dei bombardamenti della NATO o quella in corso in Tibet contro la colonizzazione cinese.
Riscoprire i loro esempi, anche grazie a questo lavoro di Anna Bravo, ha dunque un doppio valore.
Da un lato è un riconoscimento dell’invito implicito al “fai come me”, ad assumere ed allargare tutte le resistenze: “è l’invito che l’attivista civile può estendere enormemente al di là del partigiano in armi”. E’ la dimostrazione che la resistenza efficace può diventare “praticabile in molti più luoghi e forme, guadagna una fisionomia più ricca in termini di genere, età, religione, etnia, condizione socioeconomica ma anche di abilità operative e di risorse fisiche”.
Dall’altro decostruisce ancora una volta sul piano storico – mentre nel nostro Paese è più che mai in auge sotto forma di pervasiva ideologia politica, debitamente foraggiata – l’idea che la pace si generi dalla armi. A partire dallo Grande Guerra, che apre e connota il secolo breve, “la corsa agli armamenti funziona come un piano inclinato: l’aumento degli arsenali bellici in un paese provoca un aumento in altri, il che spinge il primo a rafforzarsi ulteriormente…Questo inseguimento non è un effetto perverso: è la conseguenza prevedibile del principio si vis pacem para bellum“ . Questo principio, ripetuto dall’attuale ministro della difesa fino all’ossessione – e, quel che è peggio, senza tema di essere dimissionato o quantomeno di apparire anacronistico – già ad un deputato britannico liberale ottocentesco come Wilfred Lawson sembrava ridicolo, come dire ad un ubriaco “se vuoi essere sobrio, vivi in un pub.”
Anna Bravo, a proposito della resistenza disarmata dei danesi durante l’occupazione nazista (e del salvataggio, quasi totale, degli ebrei danesi da parte dei connazionali), cita la filosofa Hannah Arendt che, ne La banalità del male, ha scritto che quella vicenda dovrebbe essere studiata nei corsi universitari di scienze politiche, per dare un’idea delle possibilità della resistenza nonviolenta “anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori”. Ecco, penso che l’affermazione della Arendt valga oggi, a sua volta, per questo lavoro di Anna Bravo. Lo indicherei, inoltre, senz’altro tra gli studi preliminari che dovrebbero visionare i parlamentari italiani, che si sono dati sei mesi per decidere sull’acquisto dei cacciabombardieri F-35, i quali – oltre ad un serio ripasso dei “principi fondamentali” della Costituzione italiana – farebbero bene a leggere e meditare proprio La conta dei salvati e poi decidere se vogliono continuare a vivere come ubriachi in un pub o provare a rinsavire ed essere ricordati come facitori di pace, inseriti nelle storie del “sangue risparmiato”.
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