Salute

Quei 1500 medici con l’Africa

Dal 1950 medici, infermieri, ostetriche del Cuamm lavorano in Africa per lo sviluppo dei sistemi sanitari locali. Molti sono cooperanti, ma ogni anno partono anche una cinquantina di volontari: «aiutano là, e soprattutto quando tornano». Incontrate il Cuamm il 5 dicembre agli Stati generali del Volontariato in sanità

di Sara De Carli

Anche il Cuamm-Medici con l'Africa è tra le esperienze che si racconteranno il giovedì 5 dicembre agli Stati generali del Volontariato in sanità.

Non hanno nemmeno bisogno di cambiarsi d’abito: il camice bianco lo indossano già per lavoro e li accompagna anche quando smontano dal turno, smettono di lavorare e indossano le vesti del volontario. Di fatto continuano a fare la stessa cosa: curare le persone. I medici volontari sono una componente fondamentale del volontariato in sanità e si moltiplicano le realtà che promuovono missioni all’estero per visitare e operare malati per cui altrimenti le cure sarebbero proibitive. Il Cuamm-Medici con l’Africa è una delle più note e importanti, con i suoi oltre sessant’anni di storia e 1.500 professionisti – tra medici, infermiere, ostetriche, tecnici –  inviati in Africa come cooperanti. Ogni anno ad essi si aggiungono una cinquantina di volontari che vanno in missione per un tempo più breve. «Il nostro obiettivo strategico è il rafforzamento dei sistemi sanitari dei Paesi in cui operiamo», spiega Giovanni Putoto, responsabile della Programmazione del Cuamm. Se devi riorganizzare la sanità di un territorio con 1 milione e mezzo di persone, non puoi essere un volontario: «Questo però non significa che il volontariato temporaneo abbia una funzione ancillare: il loro contributo anzi è doppio, giù e in Italia, quando ritornano e ridistribuiscono l’esperienza all’interno del loro mondo professionale».

Giovanni Putoto

Come è nato il Cuamm?
Il Cuamm è nato il 3 dicembre 1950 dall’esperienza ultradecennale di un medico padovano, Francesco Canova, che aveva lavorato in Giordania. L’idea era quella di formare a Padova del personale medico, che poi tornasse a lavorare nei paesi più poveri, sprovvisti di personale medico e sanitario. Erano passati solo cinque anni dalla guerra, a Padova c’erano ancora le macerie, quell’idea è un segnale anche per la crisi che attraversiamo oggi. A quell’intuizione lungimirante si affiancò poi l’idea di mandare nelle missioni giovani italiani laici, uomini e donne, anche qui precorrendo i tempi. Il primo medico partì nel 1954 per l’India, il secondo nel 1955 per l’Africa. In sessant’anni con il Cuamm sono partiti oltre 1.500 tra medici, infermieri, ostetriche, tecnici di laboratorio e tecnici amministrativi, per un tempo medio di tre anni e mezzo.

Cosa fanno?
Siamo in sette paesi dell’Africa e il nostro stile è quello di essere medici “con” l’Africa, non “per” l’Africa. Lavoriamo per la riabilitazione degli ospedali, dentro le istituzioni e le chiese locali. Non abbiamo ospedali nostre, strutture nostre, lavoriamo con programmi a medio-lungo termine: diamo il nostro contributo per il rafforzamento dei sistemi sanitari locali, è questa la nostra strategia e il nostro modo di intendere la cooperazione, puntando moltissimo sulle comunità locali. Da questo derivano tre cose: che i progetti non partono da noi, ma da un’analisi dei bisogni; la centralità della formazione, con diversi progetti di formazione universitaria intermedia; la presenza di un elemento di ricerca in quasi ogni intevento.

Mi fa un esempio?
In Etiopia c’è un’ostetrica per 20mila persone, quindi abbiamo puntato sulla formazione di ostetriche, oggi dove nei PVS si dà la maggior disparità è proprio sull’assistenza al parto. In Uganda formiamo manager sanitari, in Mozambico medici che però per il 70% vanno a lavorare nei distretti rurali. Nel 2012 abbiamo firmato una convenzione con una trentina di università italiane perché nelle scuole di specialità ci sia una formazione sulla salute globale e 70 giovani medici italiani sono partiti per un’esperienza nei paesi dove siamo presenti. Puntare sui giovani africani è una caratteristica a  ostro giudizio essenziale per la cooperazione, insieme al fatto che questa deve sempre più essere professionale e basarsi sui risultati: questa cultura del dato invece fa ancora fatica a radicarsi.

Che ruolo hanno quindi in Cuamm i medici volontari?
Abbiamo sia medici cooperanti sia volontari. Se gestisci un distretto sanitario con 1 milione e mezzo di abitanti non puoi essere un volontario, ma questo non significa che i volontari abbiamo una funzione ancillare. Non è così. Noi ogni anno abbiamo 40/50 persone che partono come volontari per una missione di breve periodo: danno un contributo sul posto, ma anche qui in Italia quando rientrano. La cosa interessante sono le relazioni che si stanno aprendo con i mondo professionali, per cui una persona che parte, parte tre volte: come persona, come professionista, come rappresentane di una Asl o di un’istituzione, con un mandato. Così quando torna ridistribuisce in tre modi diversi, come è accaduto con il progetto “Una vita per una vita”, che ha messo in rete tutte le maternità del Triveneto.


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